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african inferno

francesca romana paci

Il romanzo African Inferno si apre con una dichiarazione di realismo: una data precisa, dettagli materiali, percezioni sensoriali, un io narrante maschile, che si racconta “confuso e spaventato”, ma che, per opera del suo creatore, si dimostra ben capace di rappresentare e comunicare la propria situazione di crisi e di disordine. La scelta tecnica essendo quella di un io narrante, e coincidendo parzialmente i nomi di autore e narratore, può sembrare conseguente accettare il romanzo come autobiografico, ma identificare tout court Sandro Farina con Pallavicini sarebbe semplicistico. African Inferno contiene apertamente elementi della vita e dell’esperienza reale del suo scrittore, ma prima di tutto è un prodotto dell’immaginazione, nel quale Pallavicini elabora e comunica ai lettori la sua visone delle cose, diciamo così, al di sopra della testa o da dietro le spalle del suo narratore ufficiale. Come d’altronde hanno sempre fatto e fanno gli scrittori che sanno scrivere. Vale la pena dire subito che Piersandro Pallavicini è un bravo narratore di storie, che sa creare l’attesa della pagina dopo, sa mantenere l’attenzione e provocare in chi legge reazioni di ‘sospensione dell’incredulità’.
I trenta capitoli del romanzo sono ordinati in una struttura che alterna capitolo per capitolo una data del 2003 e una del 2004, ovvero il passato recente e il presente in svolgimento. L’io narrante è sempre Sandro Farina, ma nei capitoli datati 2004 il racconto si svolge usando il pronome “io”, che condiziona di conserva grammatica, sintassi e rappresentazione, mentre nei capitoli datati 2003 l’io parla di sé e degli eventi usando il pronome “tu”, ovvero interponendo un filtro e guardandosi agire nel passato, con lo sdoppiamento di un sé che ora ricorda e di un sé che allora agiva. Il meccanismo retorico è perseguito con molta precisione e senza smagliature fino al ventottesimo capitolo, poi, per una spontanea rastremazione delle date e quindi del narrato, Sandro Farina impiega il pronome “io” sia nel ventinovesimo sia nel trentesimo e ultimo capitolo. Non si tratta per nulla di un elemento marginale o pedante: da questa alternanza dipende molta dell’ironia e del senso di tutto il libro, così come è fondamentale per la costruzione del personaggio di Sandro Farina, che Pallavicini ha voluto simpatico, buono, caldo e palesemente abbastanza intelligente, ma anche in parte immaturo, con un sospetto di esotismo, che è il suo ‘pregiudizio positivo’, e fondamentalmente debole. L’alternanza rende evidente un percorso di crescita del personaggio, e offre anche al lettore la possibilità di crescere con il personaggio. African Inferno è un romanzo di maturazione, o forse, ancora meglio, un romanzo dove si cerca francamente una maturazione, senza nascondersi errori e insuccessi, e nello stesso tempo si cerca di far partecipare i lettori alla maturazione. E’ proprio la buona tecnica narrativa di Pallavicini, di fatto, che guida il lettore lungo l’analisi e la riflessione sulle variabili del razzismo.
Il tema del razzismo è indubbiamente una delle linee centrali del romanzo, ma non è una linea condizionante e totalizzante, e tanto meno isolata: il tema del razzismo ha forza proprio perché, per anti-razzismo, è intrecciato al tema dell’amicizia, del bisogno e della realtà di affetti, a quello della identificazione dell’io, all’onestà del raccontarsi, e, soprattutto, alla adrenalina del desiderio, adrenalina utopica forse, ma buon coibente del tutto. Le recensioni dedicate finora a African Inferno costringono a chiedersi se il romanzo sia di destra o di sinistra. Quello che mi meraviglia è che sorga il dubbio, perché è palese che il romanzo è contro l’ignavia civile, contro il non fare la fatica di raccogliere dati e poi di elaborarli, cioè pensare. Vivere applicando preconcetti e pregiudizi è apparentemente più facile, ma, dimostra Pallavicini, in realtà è piuttosto stupido e molto più pericoloso. E’ troppo semplice parlare di destra e sinistra, anche perché mi pare che sarebbe finalmente il caso di riflettere su cosa è destra e cosa è sinistra nella realtà non imposta dall’immagine. Se, però, dovessi proprio scegliere, allora direi che questo è un libro di sinistra, di una sinistra che non pretende di avere sempre ragione a priori, ma che ha il dono del dubbio, e dunque cerca di guardarsi e capire. Ed è per questo che Sandro Farina non è copia dell’autore, ma agente di pensiero e portatore di desideri vitali.
Pallavicini nel suo romanzo rappresenta i pregiudizi di tutti: di vari razzisti italiani ignoranti, risentiti, grossolani, egoisti, ricchi o meno, ma anche quelli dei razzisti per anti-razzismo, che non sono meno pigri e in fuga dal pensiero attivo; e naturalmente rappresenta anche il razzismo dei neri nei confronti dei bianchi, perché i pregiudizi sono ben distribuiti, proprio come l’egoismo e la pigrizia mentale. Il punto non è solo quello di condannare il razzismo, il punto è capire i condizionamenti e la subdola fenomenologia del razzismo. Nulla, apparentemente, può sembrare più lontano dalla ricerca scientifica dei percorsi di Sandro Farina, ma di fatto Pallavicini ha impostato il suo lavoro su un ordine procedurale simile a quello della ricerca scientifica, e, siccome ha immaginazione e buona tecnica narrativa, lo ha fatto rendendo il suo romanzo un efficace strumento di suasione. La suasione è il fine del saper dire e saper scrivere, ovvero della retorica, che è appunto l’arte della suasione - il significato ora popolare di gonfiezza e ridondanza non è quello canonico.
Un aspetto importante di African Inferno è quello della lingua, che è prima di tutto ricca e ben orchestrata, molto duttile nell’aderire di volta in volta agli eventi e alla caratterizzazione specifica dei personaggi. Sandro Farina, Joyce, Jadore, Modestin, Alberico, il Mantegazza, il Pezzo Grosso simpatico della Questura (buon anti-cliché) parlano e dialogano con i loro stilemi, e, per la perizia di Pallavicini, persino con il loro accento. La lingua del romanzo, del resto, è sempre modulata, ma con attenzione e un forte background colto, sui modelli della oralità quotidiana (per inciso, ‘squisitamente di critica letteraria’: questo raccomandavano i grandi retori forensi della classicità!). Nello stesso tempo Pallavicini fa in modo, sempre ma soprattutto nei dialoghi, di creare nuove contiguità di parole, dimostrando che i significati delle parole non ci pre-esistono, non esistono come altro da noi, ma che siamo noi a farle vivere e a caricarle di uno o un altro significato, luoghi comuni inclusi. Non voglio insistere troppo su un’analisi letteraria, ma senza meriti letterari i romanzi non riescono a convincere, e neanche a divertire, mentre African Inferno è convincente e divertente.
L’ironia è uno strumento onnipresente, sia quando si presenta come commedia, soprattutto quando entrano in scena i “Cordiali Salumi”, ma anche nello scenario preparatorio del fattaccio, al Baretto della Chiusa, e nella velata e garbata parodia di Indovina chi viene a cena (305-6); sia quando è auto-ironia amarognola, come un Campari, quando Sandro si guarda allo specchio (86), o si auto-commenta, o quando rimpiange le belle camicie (231) e in generale i vantaggi materiali della situazione precedente; sia quando è sarcasmo e satira, nei casi in cui si esibiscono i razzisti e gli antipatici, come Cissie, il povero Mantegazza e il padrone di casa; e sia, infine, quando è affettuosa, come nel “sorriso ecumenico” di Joyce (208), nel lusso (160) e nelle sfuriate di Alberico (165-6); nell’agire di Jadore, con troppi esempi per citarli; e perfino nell’uso metaforico del Bounty (203), o nella allusione, un raccontino da sola, alla “schiava Isaura” (318); e infine nella installazione blu dell’African Inferno. L’ironia, in tutte queste sue manifestazioni, ha sia la funzione di filtro sia quella di viatico – cioè ha indubbiamente una funzione morale, anti-razzista e di sinistra.
Sandro Farina è un essere umano ben lontano dalla perfezione, ma è un personaggio a tutto tondo. Forse è giusto chiamarlo anti-eroe, come qualcuno ha fatto, ma soprattutto Sandro Farina è umano, quasi patologicamente bisognoso di affetto, svergognatamente buono e onestamente se stesso, con le sue carenze, paure, debolezze e desiderio cronico di fuga psicologica. Non si contano nel romanzo le volte in cui dice di essere ubriaco, “dodici parti su dieci” (34), o di essere “bollito”, o “ho il cervello lessato” (163), o comunque cose simili. E sempre con disarmante candore. E umanamente candido rimane anche quando racconta apertamente che vorrebbe non affrontare le situazioni: “Non voglio ragionarci […] Non voglio sapere […] Non entra più niente in questa testa stanca. Basta, tregua, break, pietà […] Non voglio sapere niente e va proprio bene così” (54); “Ho bisogno di puro piacere e relax. […] E dunque di uno spritz fatto in casa … (93), e ancora, “A me andava solo di mangiare i rösti di Jadore e di bere il Frater, e di sentire, semmai al tg, chi avesse convocato Trapattoni per gli Europei” (249) - e questi sono solo pochi esempi, dai quali, come da tutti gli altri luoghi narrativi simili, Sandro Farina esce sempre più vero, umano, fallibile, ma anche dotato di ineludibile senso morale.
C’è un ultimo aspetto interessante: il finale aperto, ma decisamente felice. Non è facile concludere un romanzo con un happy ending, non tanto perché non sia più di moda da quasi un secolo, con poche eccezioni, ma proprio perché dal punto di vista tecnico è una operazione delicata, che rischia di essere presa per banale e semplicistica e di provocare involontaria fretta. Inoltre, negli ultimi capitoli entrano nel romanzo anche elementi di magia, e di qualcosa che con un calco sulla ‘giustizia poetica’ si può chiamare ‘giustizia magica’ – e anche in questo frangente il narrato, con opportune velature, produce una ‘sospensione della incredulità’. Pallavicini, dunque, rischia, e sceglie per il suo African Inferno un finale assimilabile al finale di una bella favola: wishful thinking, forse, aspirazione di un anti-razzista all’educazione morale dei lettori, forse, e anche adrenalina utopica, come si suggeriva all’inizio, ma il risultato di tutto questo è un romanzo estremamente appagante.

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Anno 6, Numero 25
September 2009

 

 

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