Nota biografica | Versione lettura |
Ramuni si dirige all'appuntamento e cerca di distrarsi sbirciando il mondo che si presenta sulla sua strada. In fondo ha un sacco di domande per il capo ma non osa porle, tanto non ci sono risposte. Tiene dalla base la sua derbouka, lo strumento che non lascia mai solo, da anni. Sulla pavimentazione di pietra elaborata, affretta il passo e annusa un'aria a cui si sta adattando a malapena. Avrebbe incontrato il suo gruppo nella gola dove si intrecciano due piazze della città molto frequentate.
Giunto nei paraggi della zona, intravede due macchine di guardia parcheggiate alla rinfusa in una delle piazze, gli agenti invece, appoggiati ai lati dei mezzi, stanno chiacchierando.
Ramuni assume l'atteggiamento di chi ha le sue carte in regola, avvertendo tuttavia una stretta al petto. Con una mossa, prova a sparire nel bel mezzo del flusso della folla di quelle parti, che non smette mai di confluire da più direzioni. Da un bel po' queste circostanze lo mettono sempre meno in agitazione, sta facendoci davvero il callo, sentendosi sollevato anche se gli dà assai fastidio il fatto che non sa fino a quando deve durare così.
Quando ha superato quel che assomiglia a un posto di frontiera, non sente né l'esigenza di trarre un sospiro di sollievo, né prendere la briga di voltarsi per controllare come stanno le cose. Avverte invece il bordo della bocca della sua derbouka come incollato alle dita. Decide di pensare soltanto a come cavarsela con la serata, all'andamento dello spettacolo, e a come avrebbe compiuto il suo ruolo all'interno del gruppo improvvisato, nel cammino che un destino tanto insolito gli aveva assegnato. Riguardo la sua condizione, per il resto, non è il caso, già si è stufato di lamentarsi. Anche se nessuno è al riparo delle lamentela in questi tempi per via della crisi. La crisi? Semplicemente lui non sa perché deve interessarlo, non ha nulla da perdere.
Non vede l'ora di raggiungere il posto d'incontro. Perché lì, e solo lì, che si sente se stesso, solo lì che sa salire in alto e uscire dalle piccole cose che combina la vita quotidiana. La sua vita, una raccolta estenuante di un puzzle difficilmente combinabile, seppure gira solamente sui due assi. Il lavoro da cercare, da un cantiere di muratura a mercati di frutta e verdure, per scaricare prodotti sulla schiena. Deve procurarsi un posto decente dove dormire, degno di fissa dimora senza dover cambiare dopo ogni boccata d'aria di stabilità, e abbordabile nel prezzo. E infine, deve scegliere percorsi giusti alle sue passeggiate, in modo che non rechino danni alla sue permanenza, ovviamente oscurare la propria identità e non lasciare nessuna impronta della sua esistenza nei paraggi, finché non arrivino tempi migliori. Termini con connotazioni di soggiorno sono diventati una fissa e non smettono di lacerargli i timpani. Spera in qualche luce inviata da qualche divina provvidenza per illuminare la coscienza degli uomini che sembrano orientati soltanto verso la logica del profitto, e dare più forza e coraggio a quei pochi che di tanto in tanto interrompono la sonnolenza delle idee, l'indifferenza degli uni e l'accanimento degli altri, e pur timida, fanno sentire la loro voce, che, peraltro, in questo momento sa consolare giusto il tempo di averla negli orecchi, il suo effetto sparisce quanto prima.
Sul suo cammino verso il centro, Ramuni è costretto ad attraversare il celebre ponte. Percorrendolo, non si ha l'impressione di essere su un ponte però, ma su una strada antica come tante altre che si incontrano per la città, con tanto di costruzioni rialzate sui due lati. Gli edifici, a tetti spioventi, tegole color ruggine, legno e pietra, hanno un aspetto molto vecchio ma tutti sono in buono stato, perlomeno sono negozi che vendono oggetti d'oro. Sul percorso si muove sempre una folla, gente che viene da tutto il mondo, almeno come si deduce dalle lingue che si sentono parlare.
Fra la folla, se la cava con alcune gomitate per farsi varco e trovarsi dall'altra parte. Là, gli spazi sono più ampi, il passaggio è più facile e camminare diventa comodo. Ramuni che era approdato da qualche mese, non conosceva prima questo tipo di ambiente frequentato da gente proveniente da ogni dove per vedere i patrimoni storici custoditi in più palazzi e in più luoghi all'aria aperta della città. Per un istante gli viene la sacrosanta idea di alzare la testa e lasciare campo libero alla sua curiosità intorno al segreto delle meraviglie, ma la sua testa è così pesante sulle sue spalle come un macigno per via di quello che ronza dentro. Allora orienta lo sguardo nella direzione che lo porta dai compagni, e tira dritto.
Sono all'incirca un po' prima delle diciotto, l'ora alla quale avrebbero cominciato a dare lo spettacolo. A costituire la banda sono in quattro, lui che viene dal sud del Mediterraneo, Mamadù che viene da più sud ancora, ovvero dal sud del Sahara, Pasquale dal sud più vicino, ovvero da Napoli, mentre, Stefano pure essendo friulano, si crede di essere di un certo sud anche lui rispetto a qualche altra parte del pianeta.
Nei paraggi Ramuni canticchia sottovoce la rapida e semplice melodia, quella della canzone che avrebbe costituito la parte più importante del concerto, e adatta il suo passo al ritmo del suo canto fino all'arrivo.
Trova già gli altri lì pronti, ma solo Stefano, seduto sulle gradinate, si sta riscaldando con la sua chitarra, suonando e cambiando nota dopo nota e aria dopo aria. Appena vede il sopraggiunto, gli porge lo strumento in un gesto armonioso, come se fosse prestabilito.
“Ma, tu lo sai, io ho questa!”, risponde Ramuni alzando leggermente in alto la sua derbouka come la sua carta d'identità.
“No, no, caro mio, ieri hai fatto una bella esibizione! Di tutti coloro con cui ho suonato nessuno per ora, ha fatto un lavoro simile con la chitarra”.
Ramuni scrolla le spalle, poco convinto. Tende la mano per agguantare la chitarra, con una certa esitazione dovuta più che altro al fatto di trovare difficoltà ad abbandonare la derbouka che continua tuttavia a tenere con l'altra mano.
La sua derbouka!
Erano passati anni da quella volta, quando Ramuni si era messo a suonare nelle feste private con un'orchestra. Nelle sue terre ovviamente. Lo faceva nel suo tempo libero e soprattutto per alleviare il cruccio che aleggiava sul suo umore particolare. Era la sua passione. Il suo gruppo si faceva pagare mentre lui giocava il suo ruolo lo stesso senza prendere un soldo. Il danaro non lo voleva mai prendere, lo lasciava al resto dei compagni, dal momento che aspirava a diventare medico. Crede che sia nato proprio quella volta il legame affettivo con il suo strumento.
Aveva partecipato per la prima volta in modo serio a un matrimonio del vicinato, e quella festa era stata sia un evento speciale sul piano personale, che una conferma di vocazione.
Prima aveva suonato con un liuto un brano di maluf composta da colui che aveva venduto più dischi nel suo paese e nei paesi vicini nella seconda metà del secolo scorso, e che continua a costituire fonte di ispirazione per gli autori fino al giorno d'oggi, colui che per forza delle cose, gli era diventato come il maestro, il grande Salim Halali.
Si direbbe che aveva effettuato l'esecuzione sul liuto a regola d'arte. Aveva fatto ballare donne, bambini, uomini e addirittura qualche anziano. Aveva stregato l'aria e aveva fatto della serata un'ebbrezza collettiva. Ma quando era passato ad assumere il ruolo del percussionista, le cose erano andate a debordare gli argini del pudore. Se prima aveva osservato l'ebbrezza collettiva, mentre aveva suonato e tenuto sotto controllo lo strumento e il proprio stato d'animo, ora non sentiva più i piedi sulla terra. Si sentiva catapultato verso le stelle, la sua esistenza venne contaminata dai più fantastici sogni, per il resto della serata e della sua vita. Era come se si fosse addentrato un diavolo capace di tutto nel suo cervello e nelle sue mani. Si riebbe solo quando la notte fu scivolata verso l'alba e vide spuntare qualche striscia rossastra di aurora stesa parallelamente al di sopra dell'orizzonte. Per un istante, ebbe la lucida idea di concludere alla grande. Allora fece una serie di percussioni più rapide che mai, e iniziò con la sua voce, heyli, heyli, sidi h'bibi... A conclusione della festa, fu un orgasmo generale, se non così non sapeva come chiamare quel delirio che dominava tutti i presenti.
Il giorno dopo s'era visto battezzare dalla sua comunità in termini ibridi, ovvero “le grand drebki”. Era diventato ricercatissimo per simili occasioni. E la sua sarebbe diventata una professione di alto livello e lui sarebbe andato lontano nella sua arte, se non fosse stato interrotta da un cambiamento giunto a travolgere profondamente il paese, musica e feste comprese. Un giorno all'indomani di una festa, si erano presentati due tizi con camici che arrivavano fino alle caviglie, sopra i quali i giubbotti di pelle, il cranio rasato, la barba arrivava a mezzo petto. E gli avevano intimato un decreto: “Niente più questi giochetti, caro fratello. Ti aiutiamo a trovare un'altra attività”. Ma lui che capì subito, essere profeta fra la propria gente era un'ardua impresa, aveva declinato l'invito dei cosiddetti fratelli nel silenzio e aveva preferito alzare le chiappe e trovarsi un posto altrove, il più lontano possibile.
E così che aveva preferito senza rimpianti, seguire la derbouka e il destino, sogni indefiniti, ebbrezze del momento, trance che risuscitano i sensi umani, era andato lontano. Poi il fatto di diventare un profeta e o di farsi rovinare per strada, non lo preoccupava affatto. E altrettanto la sua cara medicina era andare per i fatti suoi, altrove, da gente nata con la camicia, e con un quaderno e una penna per pianificare la propria vita da cima a fondo, nei minimi dettagli.
Certamente da quel momento ad ora è passata molta acqua sotto i ponti e Ramuni ne ha visti di tutti i tipi.
Il fatto di essersi lasciato sommergere da quel ricordo e la gloria di quella famosa serata, dà l'impressione di essere uno smarrito ebbro, e in realtà, anche se momentaneamente, lo riempe di forza. Mentre agguanta la chitarra crede che il proprio cervello si stia riavvolgendo dentro al cranio, e per un istante stia per scoppiare.
“Ma che ti sta succedendo, Ramuni? Come va la tua ghorba?”, chiede Stefano, un po' sorpreso e con un cenno di affetto.
Ramuni alza un po' in alto il suo strumento, con l'altra mano prende la chitarra. Ecco, per dire che la riempirà di botte, la sua ghorba, la stenderà nella sera che sta arrivando, come in tutte le serate precedenti, sulla superficie di pelle ben tirata. Poi dondola avanti e indietro la testa che gira a lato per nascondere gli occhi lucidi.
“Come inizia la canzone di ieri sera, halala, halala?”, Stefano sposta il discorso sulla musica.
Ramuni fa una risata appena accentuata alla pronuncia storpiata del compagno e alle rime sbagliate. Appoggia la derbouka sulle gradinata e vi si siede accanto sistemando la chitarra sulle gambe piegate, lo sguardo puntato sulle corde in vista di adeguarne una corretta tensione per le sue esigenze. Effettua una serie di note in forma di prova, canticchiando la solita melodia di prima a voce sommossa e a parole smorzate. Non si accorge nemmeno di Stefano che si avvicina con l'orecchio per decifrare le sillabe, tanto le parole appartengono a una lingua che non conosce ancora.
“Heyli, heyli!”, fa Ramuni.
“Heyli, heyli... – segue Stefano spensierato correggendosi – Sai, una volta cantavo Aiscia di Kaled!”.
Poi batte sulla spalla dell'altro e dice: “Però, questa la lasciamo al momento opportuna, insomma per concludere!”. Sorride come se avesse parlato del canto del cigno.
“Certo, certo!”, conviene Ramuni sempre con il capo chino sulle corde. Poi quando rialza lo sguardo vede al suo lato Pasquale e Mamadù in piedi davanti che fissano quello che sta fabbricando Ramuni.
Nell'espressione di Mamadù, in un baleno, Ramuni legge il percorso dei due insieme, e che non assomiglia per niente ad una passeggiata, e che aveva rafforzato il loro legame; il tipo di amicizia che lega gli uomini in certi momenti che rimangono incisi nella memoria fino all'ultimo giorno della loro vita.
Un cammino di fuga!
Si erano conosciuti in un campo, dove erano stato rinchiusi come evasori della fame che ce l'avessero fatta ad attraversare il Mediterraneo e sfuggire a un eventuale naufragio nel mare. Era uno di quei campi sparsi un po' qua un po' là per il vecchio continente quando questo aveva deciso chiudere le porte sulle sue ricchezze.
Infatti Mamadù era passato proprio da quelle parti, con una nave vecchia e sgangherata che aveva viaggiato a fatica prima di spezzarsi nel mare, vicino alle coste del sud, lasciando tanti di quei corpi esanimi a galleggiare sull'acqua come pezzi di detriti. Ma lui era stato fortunato perché era sfuggito a quella sorte; con pochi era stato salvato in tempo. Salvato fino a un certo punto, perché era stato poi rinchiuso nel campo. Mentre Ramuni aveva tutte le carte in regola per anni, poi era stato mandato a farsi benedire dal capo della ditta dove lavorava, e con questo aveva perso ogni cosa, diritto e validità di documenti. Eppure nel suo caso, una volta non succedeva nulla, quando c'era gente che sapeva chiudere un occhio sulle trasgressioni innocue.
Dopo erano saltati fuori occhi come funghi in tutti gli angoli. Accesi come fanali, lo vedevano ovunque appoggiasse il suo culo. E lui possedeva la facilità di appoggiare il culo in modo tale da farsi consumare i pantaloni sulle natiche sempre prima e in breve. Se c'è una compagnia che gli permette di fare quattro chiacchiere o qualcuno che lo invita a fumare una sigaretta insieme, senza parlare delle occasioni in cui può utilizzare la sua derbouka. Se su un sasso accanto al fiume, sulle panchine dei giardini pubblici, sulle gradinate delle piazze o su una sedia di un decente locale, non fa differenza. Lui appoggiava il culo senza farsi pregare.
E così anche lui era finito nello stesso campo, e lì che si erano conosciuti lui e Mamadù. La loro, era diventata amicizia, soprattutto per via della passione alla musica. Mamadù cantava e Ramuni faceva il percussionista, con i loro improvvisati poveri concerti, avevano guadagnato fama e rispetto presso la comunità dei rinchiusi, in quanto spesso alleggerivano l'umore cattivo che aleggiava su di loro. Perché là, mettere in sospeso e non pensarci alla sorte che spettava a ognuno di loro, era a dir poco un'impresa. Avevano passato interi pomeriggi nello spiazzo a cantare circondati dai compagni che non smettevano di ballare, di ubriacarsi del suono e della voce, di fuggire la consapevolezza della condizione in cui erano, sudando e stancandosi. Ma un giorno di sera mentre si divertivano come il solito, scoppiò una rivolta da parte di gente che non si mischiava con loro, un gruppo più potente.
Di fronte a incidenti gravi, grida, scassi, fuoco e spari, l'istinto dell'uomo inerme, suggerisce una sola scelta, la fuga.
Allora per forza di cose, si trovarono nelle condizioni di dover dar una mano l'uno l'altro e scappare insieme.
“Finché tu avrai la tua voce ed io la mia derbouka, non ci fa troppo male quella malattia. Abbiamo la medicina per rimediare. Siamo fortunati!”, fece Ramuni mentre erano in piena fuga.
“Parli della ghorba? – si informa Mamadù in uno stato di sofferenza – Ma non la so spiegare, la sento quando mi prende forte, ma non so spiegare”.
“Te la spiego io, non c'è cosa più facile da spiegare. Lei è sempre in agguato quando un arabo o musulmano o africano, immigrato vive in occidente e si trova in difficoltà. Se si sta bene, no. Si sta bene e basta”. Si dilungò Ramuni e accompagnò le sue parole con due percussioni sulla derbouka che aveva sotto braccio come la sua prole. Ormai camminavano lontani dal luogo del rogo che era stato appiccato qualche ora prima. Poi si fermò un attimo: “Io... – punta il dito sul suo petto e concluse – Io sono arabo e musulmano e africano, io sto peggio di te. Tu hai un aggravante in meno, sei solo musulmano e africano. Dopo che Obama è diventato presidente degli Stati Uniti, se ti prendono ti fanno sindaco!”.
Quel disgraziato, bello, alto e abbronzato al fianco di Ramuni, che non era altro che Mamadù, stampò una seria di denti bianchi candidi come se fosse un lampo. Mamadù aveva sempre il sorriso largo, e dicono che ce l'aveva anche quando aveva il culo in mezzo al mare e lo salvava la guardia costiera. Seguì una risata che si trasformò in canto, e si improvvisò uno spettacolo ambulante. Percussioni e voce.
“Te, se ti prendono ti tagliano le unghie, peli del naso, ti aggiustano i capelli e ti fanno sindaco. A me, se mi prendono, mi mandano a pascolare i cammelli!”, intonò Ramuni percuotendo la derbouka. Ovviamente si era ricordato di quanto gli dicevano le guardie del campo e aspettavano di fare seriamente nei suoi confronti.
“E se tu non hai mai visto nemmeno un cammello! – replicò Mamadù che ne sapeva ormai più di una sul compagno socchiudendo gli occhi come il solito quando gli veniva voglia di cantare – O mi fanno bianco come Michael Jackson!”.
“E l'hanno ucciso Jako, lascia stare in pace il nostro Jako. Ti fanno sindaco! – proseguì Ramuni in botta e risposta con il compagno –
io sono orgoglioso dei miei cammelli
tu non hai mai visto un cammello
tu sindaco, io a pascolare cammelli!
io sindaco, tu, a pascolare cammelli
sindaco, pascolare cammelli
sindaco pascolacammelli
sindaco pascolacammelli
sindaco pascolacammelli”.
Il posto dove erano approdati, dopo un lungo cammino, era del tutto diverso, avevano sentito parlare di un luogo dove era rimasto un pezzo di brava gente. Le campagne erano di un azzurrino sfumato dove si estendono vigneti e oliveti. Le città erano antiche e ben mantenute. Molti viaggiatori erano passati da lì suscettibili di ammirarne cultura e arte. Pensando a questi propositi, i due evasi avevano riflettuto, e ognuno aveva urlato una cosa in omaggio del posto che speravano più ospitale.
“Allora perché non facciamo divertire questa gente?”, si domandò Mamadù a voce alta.
“E chiamiamo questa terra la Roccaforte delle libertà!”, si entusiasmò l'altro alla propria idea.
Allora scesero in una gola dove si incontrano due piazze, nel cuore della città più importante. E lì, dove stanno proprio adesso, nel segno del linguaggio universale della derbouka, delle chitarre, delle voci e della composizione delle parole. Avevano conosciuto uno che dice di essere friulano, l'altro che dice di essere napoletano, ovvero Stefano e Pasquale.
I quattro si sistemano come se fossero una vera orchestra. Intanto Stefano e Pasquale avevano imparato qualche melodia nuova, esotica.
Ramuni fa come se avesse un dovere da compiere. Con passione, si piega in due sulla chitarra. Altrettanto Stefano sulla seconda chitarra. Pasquale si è dato alla derbouka di Ramuni, sulla quale se la cava discretamente. Mentre parte un certo “ya, ya” che si ripete sempre all'inizio della canzone africana. E la voce di Mamadù con esultanza sorvola l'aria. Flessibile e morbida, si sposta dall'alta e sottile a quella rauca e bassa, penetra nell'udito degli spettatori e fa vibrare le loro membra come il richiamo di un'emozione. Via, via la gente prende a raccogliersi in forma di un semicerchio attorno all'evento. E più la gente si raccoglie, più il ritmo dell'esecuzione dell'orchestra aumenta di intensità e frenesia.
Ramuni muove le dita sulle corde della chitarra, come se fosse arrabbiato e le stesse strappando. Si convince di non investire tutte le forze di cui dispone in quanto aveva legato la sua passione all'altro strumento, e guarda Pasquale quasi infastidito. Coglie l'impressione che la derbouka nelle sue mani si stia lamentando e sia in cerca di aiuto. Si compiace comunque per il fatto di cavarsela ottimamente con la chitarra. Poi guarda verso il pubblico e vede spuntare copricapi indefiniti qua e là fra la gente. Aguzza bene gli occhi per mettere la vista a fuoco e percepisce che si tratta di elmetti, che a poco a poco stanno diventando dominanti di numero rispetto al pubblico. Non ci vuole molto a rendersi conto che lui e Mamadù sono ricercati. Gli manca poco per beccarsi un infarto. Le sue dita cedono colpo dopo colpo e la chitarra affiata. Non tarda una gomitata speditagli al fianco da Stefano.
“Prendi la tua derbuca!”.
Guarda verso Stefano privo della facoltà di ragionare. Crede di non essere più in grado né di intendere né di volere. Uno stato di totale immobilità. Talmente rimasto fisso su quella presenza inopportuna, che gli occhi gli fanno male dentro l'orbita. Riprendendo un che di fiducia si mette nelle mani di Stefano, ora più lucido di lui. Si impegna a prendere la sua proposta al volo, come una ciambella in mezzo al mare in un naufragio.
Si scambiano gli strumenti lui e Pasquale. Lui riprende la derbouka, Pasquale la chitarra. Nel frattempo, il suono di Stefano e la voce di Mamadù, che non si era manco accorto di niente avendo gli occhi socchiusi, hanno riempito l'atmosfera.
Di punto in bianco, spinto dalla presenza di così tanti elmetti che stanno proprio sostituendo il pubblico, Stefano si trova costretto a improvvisarsi leader in quel frangente, e agire piuttosto su due fronti. Guidare l'orchestra e gestire la calma collettiva. Scarica un'altra gomitata al fianco di Ramuni, quando vede un paio di soldati che stanno per fare un passo verso di loro. Tuttavia questi non appaiono determinati perché stanno lì a fissare i musicisti con aria da stregati.
“Sono bastardi, ma non figli di puttana, questi! – informa Stefano che conosce bene i suoi polli, negli orecchi di Ramuni – Adesso, andiamo con sidi bibi, e scarichiamo del tutto la loro determinazione. Vai!”. Stefano trascura spesso la h del titolo.
Le mani di Ramuni non scattano come al solito, reagisce a malapena al richiamo del compagno per l'inizio.
“Dai, tira fuori la tua arte, Ramuni, dai, sidi bibi!”.
Ramuni prende consapevolezza del peso del compito a lui affidato. Certo, sidi h'bibi, sa soltanto lui gestirne melodia e ritmi.
“Heyli, heyli!”, gli altri tre vanno insieme in coro come si deve.
Poi come un moderato, Stefano si rivolge al pubblico e urla discorsi improvvisati e volutamente sconnessi: “Cantiamo insieme e balliamo fino all'infinito, e poi andiamo in Svizzera a mangiare un po' di müesli a colazione. E saremo super extra! – Poi verso il compagno – E tu Ramuni, mangerai cioccolata e ti levi un po' la tua ghorba di dosso!”.
Ramuni si libera dalle difficoltà di ripartire, a stento. Ma pensando al suo maestro, il grande Salim Halali, e alla sua sua storia, una storia straordinaria, riesce di colpo a staccare la sua mente dalla realtà della cose. Allora non conta più niente, non contano le conseguenze né il giorno dopo. Finché sta agguantando quell' aggeggio appoggiato sulle ginocchia, non morirà mai la speranza. Le sue mani ritornano a essere quelle che sono, e la sua voce viene fuori lenta e semi soffocata.
heyli, heyli
heyli, heyli
La storia di Halili lo commuove, e adesso è una referenza, la fa sua. Per un intero minuto realizza una serie di percussioni con grandi inventive e variazioni.
heyli, heyli
heyli, Halali
“Dai, dai! heyli, heyli!”, urla Stefano verso i soldati che erano avanzati verso di loro e poi rimasti a quattro passi fermi, quasi dondolanti, trascinati dal trambusto generale. “Gli artisti, come donne e bambini, vanno salvati – allunga il muso verso di loro sorridendo e facendo una smorfia buffa – Scusate se questa non è mia, amiche, amici, se l'ho presa dal Giudizio universale”.
Ramuni guada davanti a sé, ora non crede ai suoi occhi quando vede i soldati che avanzavano verso di loro prima, alzare i fucili verso l'alto in movimento insolito, e mischiarsi fra la gente di tutti i colori, prendere parte al ballo. Arriva a coprire le sue narici un odore di incenso e lui percepisce qualcosa di divino nell'aria. Gli viene in mente come era stato salvato il suo maestro insieme a decine di suoi simili dalla deportazione verso i lager tedeschi grazie all'intervento del rettore della moschea parigina durante il secondo conflitto mondiale. Si convince che la storia non smette di ripetersi.
Ci sono sempre stati uomini che amano fare soffrire altri uomini, e per contro ci sono uomini che amano aiutare altri uomini. Si comincia e si finisce, si finisce e si ricomincia. Ieri come oggi. Le sue mani hanno preso una totale libertà e stanno battendo come se fossero dotate di alta tensione.
In quel pezzetto di piazza, nel frattempo, si era consolidata la presenza di un mondo, ora, scatenato in ebollizioni contaminati. Ci sono giapponesi con minuscole macchine fotografiche, americani in pantaloncini, spagnoli con la bandiera avvolta sulle spalle, e tanta di quella gente del posto, bambini con cappellini, giovani donne con minigonne, signori distinti, tutti ballano e applaudono al ritmo di heyli, heyli.
Mio amore dove sei finito.
Per un bel pezzo il ballo prende un andamento che sembra non finire. Ciò che è venuto a crearsi sul posto assomiglia sempre di più alla celebrazione di un rito di immensa importanza, manca solo che qualcuno stia in attesa dell'arrivo del messia per salvare l'umanità. Quando comincia a calare la sera e ad accendersi i lampioni della città, la folla è sul punto di entrare in trance. Il concerto è durato quasi il doppio rispetto alle sere precedenti, e solo l’ultima canzone ne ha preso una buona, e starebbe continuando se non si fosse alzata una voce preoccupata che nessuno sa da dove viene.
“Attenti!”.
Segue al fianco di Ramuni un'altra gomitata, una gomitata seria, forte che per poco non gli fa buttare fuori i succhi gastrici del suo stomaco. Comunque lascia un dolore ben percepibile nelle costole.
“Tu e Mamadù, toglietevi dai coglioni, come meglio potete, presto, presto! I nuovi arrivati non mi piacciono!”.
“Cattivi?”, agitato chiede Ramuni che aveva sentito parlare della nuova politica.
“Figli di puttana!”.
Difatti, un'altra schiera di soldati, si sta avvicinando e facendo varco verso l'orchestra con fucili che rispecchiano la luce dei lampioni, in mano pronti per essere puntati. Poche parole, niente sguardi tintinnanti, serietà alle stelle, almeno da quanto si vede a occhio nudo. Altri della stessa schiera stanno disarmando i soldati che erano arrivati prima e che avevano ballato. Ramuni stringe la derbouka sotto un braccio e fulmina con un sguardo guardingo Mamadù e gli scuote il braccio. In men che non si dica i due si perdono nella mischia. Mentre nel posto dove erano, si dà atto a un interrogatorio a Stefano e Pasquale da parte di uno che deve essere un pezzo grosso.
“Dove avete nascosto i vostri compagni? – dice questi con spiccata autorevolezza, deve essere, senz'altro, il capo della spedizione – Altrimenti, arresto voi altri, avete provocato una cagnara con due ricercati!”.
“Sono due artisti! Abbiamo fatto arte!”, replica Stefano.
“È una cagnara, l'ho appena detto, quella non è arte!”, urla il militare.
In aiuto della spedizione militare, nel frattempo, arrivano rinforzi da parte di un'altra schiera di individui vestiti di camicia gialla, dall’aspetto che non fa ricordare l'Esercito dello stato. Un po' goffi, un po' maldestri, con gesti da neofiti, scomposti e pignoli però, si danno da fare con l'intenzione di identificare ogni persona che porta un colore del viso diverso, capelli riccioli, o occhi a mandorla.
“Non si lavora così, ah! – raschia la gola quello che è alle prese con Stefano e Pasquale – Non conta il colore della pelle, o ogni aspetto fisiologico, i tempi sono cambiati. Ma è nei gesti delle mani, negli sguardi, negli atteggiamenti, che riconoscerete il vostro obiettivo. Mi raccomando, state attenti, in questo momento gli Obama sono forti. E cercate a non farci altre brutte figure! Uffa, i soliti minchioni! E mi mandano questi minchia di provinciali ad aiutare me! Devo fare il mio lavoro o a insegnargli a non combinare stronzate?!”. Si irrita il militare che punta il dito sul suo petto e poi di nuovo si volta verso i due musicisti rimasti con il culo appoggiato sulle gradinate della piazza: “Io dovrei fare le guerra nel senso classico, cose serie. Invece mi tocca andare dietro ai perditempo... Dove sono i vostri complici?”.
Le ultime parole giungono frastagliate all'udito di quelli in fuga, che poi fanno perdere le loro tracce dalla zona insinuandosi nel complesso tessuto della città. Imboccano un vicolo strettissimo, con l'intenzione di percorrerlo il più lontano possibile. Giunti in fondo, sembra che la serata sia finita e la calma gli sia tornata nell'anima, almeno nella loro semplice convinzione taciuta, e a loro non rimanga che tirare un sospiro di sollievo e pensare che domani sarà un altro giorno, come ogni fine giornata.
Il momento di tregua fa sì che i due proseguano la loro strada rifuggendo in un po' di silenzio. Senza accorgersi, si trovano a camminare uno distante dall'altro, come due perfette sagome sconosciute per la strada semi buia. Mamadù per via delle gambe da gazzella che è già andato molto avanti e fluttua come un cencio scuro. Ramuni dietro, un po' esausto, lo segue e, di volta in volta, lo tiene d'occhio. E così appena lo stato d'animo di Ramuni si abbandona a questa calma circostanziale, vede il suo compagno in fondo come se si fosse addentrato in cerchio di fiamme. E presto individua una volante della polizia e agenti che sono già scesi per affrontare Mamadù.
Ramuni si ferma di soprassalto e non sa che fare. Se non altro, per istinto, si nasconde alla vista dei poliziotti come per ripararsi dalla pioggia, nell'angolo di una traversa, rasente al muro. Sbircia l'andamento delle operazioni. Osserva la scena. Vede gli agenti tenere Mamadù, ognuno da un braccio e ricongiungere le sue mani sulla schiena. Il gesto di ammanettare Mamadù di uno dei due sbirri, è così evidente che Ramuni crede di averlo accolto dentro l'orecchio come un disturbo mentale. Mentre gli sbirri sono presi dallo sbrigare le pratiche intorno a Mamadù, a Ramuni basta un mezzo minuto per riflette. Un tempo breve ma tanto intenso che il suo significato lo penetra nelle viscere.
Sarà che Ramuni è un individuo errante e senza fissa dimora, quindi di per sé le responsabilità lo evitano e la gente non lo prende sul serio, ma nel suo profondo certe cose continuano a stare fisse come stanno fissi da duemila anni, i giganteschi sassi lasciati dai Romani nelle sue terre, come l'entità perenne della fede della sua gente, e una di queste cose si presenta in questo momento. Non avrebbe mai lasciato un compagno in mezzo al cammino, che avevano intrapreso insieme, per svignarsela e salvare la sua misera anima. A costo di una morte sicura o un caro prezzo. Tanto nel primo caso almeno sarebbe stata una fine pulita, sana, nel secondo si sarebbe risparmiato l'onta della viltà e avrebbe rafforzato le sue qualità d'uomo.
Quando stanno per spingere Mamadù dalle spalle all'interno dell'automobile, Ramuni prende irreversibilmente la sua decisione. Gli è già accanto, prima che venga sistemato dentro l'abitacolo della macchina.
“Mamadù! – lo chiama e quando Mamadù alza la testa verso di lui, aggiunge – Non sei solo!”. E si presenta agli agenti: “Sono ricercato anche io”.
“Allora ti lego con il tuo amico, e ti lascio una mano libera. Non ho voglia di occuparmi di questo tamburo”, lo sbirro indica la derbouka e prende a slegare Mamadù. Fra il pollice e l'indice, appende le manette nell'aria come per ammirarle e si gira verso il suo collega: “Non ne posso più di toccare sempre mani altrui, mani sudice, mani fradici, mani... che cazzo altro...”.
I due fermati si interrogano con solo due sguardi, e gli occhi dicono una sola parola, fuga. Corrono avanti, girano a una traversa a sinistra. Mentre prendono la rincorsa nella strada, si vedono correre dietro due ombre gigantesche provocate dalla macchina che sta dietro loro e che va adagio, ma non li perde di vista. Arrivati ad un certo punto, una traversa, trovano la strada bloccata, solo a sinistra è libera. Seguono quella direzione fino a che non trovano di nuovo la strada bloccata, a una traversa, ma anche lì il passaggio è libero solo a sinistra. Ancora continuano a correre in quella direzione e così facendo tornano al punto di partenza. La macchina è sempre dietro di loro, e loro sempre a correre davanti, a fare sempre lo stesso circuito, finché non capiscono che non ce l'avrebbero mai fatta a farla franca. Allora, col fiato corto, stanchi e assetati, si arrendono alla volontà degli inseguitori.
Questi ultimi, per via della derbouka di Ramuni, decidono di legarli con solo paio di manette, la mano dell'uno attaccata alla mano dell'altro. Li fanno salire a bordo del mezzo. Ramuni lascia sul grembo lo strumento e guarda attraverso il finestrino. Con sua grande sorpresa, vede due visi in chiaroscuro fluttuare nel semi buio con cui si vesta la città a quell'ora. Stefano allora batte sulle vetro dello sbirro al posto del passeggero.
“Arrestate anche noi! Perché non lo fate, abbiamo suonato insieme a loro!”, urla, e le sue parole arrivano all'interno poco chiare.
“Perché vi immischiate voi altri? Andate via!”, intima lo sbirro.
“Se continuate con questa politicaccia, prima o poi ci portate al terzo mondo! – Stefano si appoggia al lato della macchina che si è mossa in avanti per partire – Poi state tranquilli, non verrà più nessuno a trovarvi!”.
“Non voglio rimanere da solo con voi in questo paese!” La voce di Pasquale attenuata ormai dalla distanza e dalla chiusura delle vetrate, penetra come un lamento, quando le gomme della macchina hanno fischiato e girato già per qualche metro: “C'era una volta un bel paese! C'era una volta brava gente. Davvero! Io, davvero, andrò in India o a Dubai!”
I due fermati e attaccati ora l'uno l'altro, vedono attraverso una robusta inferriata di acciaio che li separa dagli agenti, quello nel posto del passeggero tirare da chissà dove un frutto giallo. Quando la gira fra le mani, si intravede una banana ricurva più del normale, con la quale mira davanti a sé come se avesse una pistola in mano. Simula spari con una voce beffarda, pronunciando: “Preso, preso!”. Ripete la cosa più volte prima di riposare il frutto sul cruscotto. La sua voce adesso lascia il giochetto degli spari, e canticchia, e piano piano aumenta il suo volume. Per l'inizio sembra un semplice rumore che esce dalle sue labbra, incomprensibile. Ad un certo punto, a sorpresa dei due ammanettati, rinchiusi dietro come due scimmiotti, comincia a scandire le sue parole:
heyli, heyli... heyli, heyli, sidi h'bibi
A Ramuni si infettano le meningi e lui rimane stordito. Alza la mano libera e sta per fare il segno della croce, un gesto che aveva conosciuto lungo la sua permanenza nel paese e ne aveva assimilato il senso, se non si fosse accorto in tempo d'essere di un'altra religione e non lo può fare. La sua mano rimane appesa nell'aria, la punta delle dita attaccata al tettuccio dell'abitacolo. Ma conquista uno scioglilingua mai esperimentato prima nella sua vita, si intende, naturalmente, con gli sbirri.
“Questa è nostra, ci arresti e canti la nostra canzone?”, apostrofa l'agente con rara pacatezza, gli sembra di avere di legno le pareti della gola per colpa della sete.
“A me piace! – fa lo sbirro a tutta risposta, e continua indisturbato – heyli, heyli...”
“Noi abbiamo solo cantato, che abbiamo fatto altro”, Ramuni approfitta del dialogo che ha riuscito a stabile con lo sbirro grazie al suo scioglilingua.
“Non avete fatto niente, avete abbandonato il vostro posto senza autorizzazione alcuna. Non ce l'ho con voi, faccio solo il mio lavoro”, spiega lo sbirro e continua canticchiare fra i denti e di volta in volta si ferma e dice qualcosa, senza mai rinunciare all'inserimento di qualche nota di sarcasmo nei suoi discorsi. “Noi lo facciamo per il vostro bene, questa legge vi tutela, mica è contro di voi. Voi dovete semplicemente stare dentro, voi siete vulnerabili, e fuori è pericoloso, capito? Come ve lo devo spiegare? Siete proprio duri di comprendoni, accidenti a voi!”.
“Dove ci volete portare?”.
“Dove si rialzano mura alte e protettive. Dove non ci sono curiosi. Insomma dove vi ricambiamo, e vi facciamo la festa come ce l'avete fatta voi altri prima – e esegue una rima fra i denti e riprende –Insomma ci avete fatto...”. Ma viene interrotto all'improvviso quando il suo mezzo viene fermata da un blocco stradale.
Luci di torce vengono da tutte i lati della macchina a illuminare i quattro uomini occupanti l'abitacolo, due sbirri, due fermati. Davanti a un passo dal parafango della macchina, è piazzato un cingolato di traverso sulle strada, che sembra dotato di sistemi ingenti di comunicazione con tanto di antenne tonde, che si intravedono sul tetto delineato nel semi buio come cerchi oscuri.
Al finestrino del poliziotto alla guida arriva il dito di una grossa mano e poi appare il volto di un militare.
Il finestrino si abbassa, e il poliziotto alla guida dirige lo sguardo in alto verso il militare. Un faccione imponente, zigomi alti, la mascella larga, guance concave, gli occhi da aquila, l'elmetto leggermente spinto indietro, espone a caratteri cubitali, la sua autorevolezza al di sopra di ogni considerazione. Insomma il generale Mandibola in Zeta la formica, in veste umana.
“Questi, due dietro sono miei, li voglio!”, intima l'ufficiale, dalla voce si riconosce che è quello che aveva minacciato d'arresto Stefano e Pasquale nel posto del concerto.
“Nossignore! Li abbiamo presi noi, non li abbiamo rubati a nessuno!”, dice l'altro agente che è uscito dell'automobile, con il frutta giallo in mano.
“Vi consiglio di non farmi perdere la pazienza! Non sapete chi sono io? Io dovrei fare guerre serie, invece mi tocca di occuparmi dei perditempo. Avete capito! Allora li voglio, questi due individui sono miei, gli sto dietro tutta la sera. Voi li avete presi, grazie al nostro lavoro preliminare. Voi ne avete approfittato!”, protesta il militare senza andare troppo per il sottile.
“Nossignore, noi li abbiamo trovati nel nostro territorio, quindi sono nostri, e noi che ce ne occupiamo”, ribatte il poliziotto con la banana che tiene leggermente nascosta alla vista del militare, e in fondo pensa: “E chi se ne frega chi sei!”.
Allora il militare gira le spalle e si rivolge all'agente che era alla guida e ribatte: “Fallo capire tu al tuo collega, prima che perda la pazienza!”.
Invece di capire, il “collega” sfila piano piano al militare dalla fedina la pistola e infila nel suo posto il frutto esotico, e dice poi disinvolto: “Signore, io sono intelligente e capisco ogni cosa, quello che ho appena detto è la cosa giusta”.
A quel punto il militare perde davvero la pazienza. Si riassetta di colpo girandosi verso il suo avversario, e tira fuori quella che dovrebbe essere la sua arma. La punta nel petto del poliziotto adesso ilare. Il tatto del militare non riconosce la freschezza del metallo a cui è abituato, si trova piuttosto fra le mani uno schifo di pelle viscida, e rimane sbigottito, peggio che subire una degradazione da parte delle autorità superiori. Posa uno sguardo truce sulla sua arma.
“È una banana! – la fissa immobile – Che cos'è questa storia?!”
“È una banana!”, rispondono tutti gli atri, poliziotti e soldati in coro.
Nel frattempo l'agente che era sulla guida, fa scendere Ramuni e Mamadù legati l'uno all'altro, la derbuoka appesa da un lato. Li tiene appoggiati sul lato dell'automobile come due buoi esposti alla vendita in un mercato di bestiame, e fa una proposta quando vede che il militare, dopo che la sua rabbia si è attenuata dalla presenza inspiegabile della banana, annuire con il capo in segno di accordo a più riprese.
“Per non fare né vincitori né vinti, facciamo una cosa, signori! Lasciamoli andare, non li prende nessun, che ne dite signori?”, e si presta a infilare la chiavetta nelle manette.
“Fermo! No, io non concordo affatto con questa proposta!”, protesta determinato il militare e lancia la banana verso il fondo della scarpata con un gesto secco.
“Ma nemmeno io concordo – interviene l'agente che aveva scambiato la pistola del militare con la banana – Sono nostri... io non mi sono mai divertito”. E simula un pianto come un bambino.
Allora la discussione si accende più che mai. Si mettono a parlare tutti contemporaneamente, urlando, senza far capire nulla ai due trattenuti, dritti al lato della macchina. Dopo il lungo dibattito sulla sorte dei due, il militare dice di avere anche lui la sua proposta e che secondo lui, sarebbe la migliore:
“Quale?”, chiede il poliziotto.
“Li liberiamo e poi ogni volta vengono ripresi, gli facciamo pagare una manciata di euro. Non li rimandiamo senza smistarli a quel beduino con il fucile sulla spalla e che li aspetta laggiù, sulle coste sud del mare. Che rimanga nella sua tenda super tecnologica a contare i suoi cammelli e le stelle del Sahara!”.
Si rialza una collettiva risata strafottente che provoca una risonanza ripetuta più volte nelle mura della città ormai addormentata da ore, che qualcuno si è preso la briga di aprire la finestra e vi si sta affacciando. E poi riprendono a discutere sulla nuova proposta prendendo il loro tempo. Qualcuno chiede una pausa per fumare una sigarette, qualcuno lo fa per chiamare la mamma o la fidanzata e qualcuno altro per andare sulla scarpata a fare i suoi bisogni. E i due legati sono sempre al loro posto, e sempre più stanchi ed esausti dall'attesa che giunga una soluzione al loro caso.
E la discussione, fra una fragorosa risata e un lungo disaccordo, va a non finire. Intanto l'agente della banana, si è ingegnato un momento giusto e di nuovo posa la pistola del militare nel suo posto. E chiede a sua volta qualche minuto per andare a fare la pipi. E scende in fondo alla scarpata.
Mamadù e Ramuni raggiungono un livello di fatica e sete tale che non possono più reggere il loro peso in piedi.
“Sogno, sogno una bottiglia di acqua naturale, solo questo! – dice Ramuni con voce lenta – La berrei di un solo colpo, e non mi lamenterò mai di niente nella mia vita. Sarei l'uomo più felice del mondo. Solo una bottiglia fresca, il giusto. Non troppo fredda, non calda”.
“È vero, abbiamo fatto molte cose stasera, abbiamo cantato e gridato forte, e soprattutto corso troppo. Le nostre gole e le nostre gambe... povere. Non dovevamo fare molte cose in una serata. È troppo per noi”, Mamadù si appoggia a Ramuni, come due addormentati in piedi.
Ma dalla loro fatica impastata in un dormiveglia da drogati, li scuote un forte urlo del militare.
“Ho trovato la mia pistola!”, si mette a ballare sul limbo della scarpata come un giocatore di calcio che ha segnato un gol.
Lo sente l'agente che ora come un'ombra sotto la strada sta facendo il suo bisogno e replica:
“Che bello pisciare! Venite, venite a pisciare. Chi non piscia in compagnia o è un ladro o una spia!”
“Chi piscia in compagnia è di sinistra!”, risponde il militare da una parte contento per aver recuperato la sua arma, dall'altra irritato dalla battuta dell'agente.
Di nuovo riprende in botta e risposta il dibattito sulla sorte dei due fermati. Questi non hanno più forza per reggere, un manto di estenuazione li avvolge. Piano piano, l'uno trascina l'altro all'ingiù fino a un metro di altezza. Poi in una sola botta stramazzano sulla terra. Legati mano nella mano, spalla contro spalla, testa contro testa, come fratelli siamesi inseparabili.
“E chi li prenderà, non importa quante volte, saranno suoi!”. Sono riusciti appena ad accogliere le ultime parole come monito, mentre si perdono in una nuvola scura volteggiante sulla loro anima.