Nota biografica | Versione lettura |
INTRODUZIONE
Secoli di tradizione orale si sedimentano nella coscienza di un popolo e ne formano la storia. Se è vero che historia magistra vitae, come dicevano gli antichi, la Storia vera mostra che a nulla valgono i suoi insegnamenti se non vivificati dalla quotidianità, dagli atti di un’esperienza reale che ne inserisca appunto nella coscienza gli insegnamenti.
Come dire. La Storia non insegna nulla all’uomo di oggi, perché non è più storia. Non è un caso che la parola italiana sia polisemica e indichi due modi diversi della stessa realtà. O la Storia parla di storie e le storie muovono la nostra condotta, o la Storia resta nei libri e non è più storia, dunque non insegna e non è maestra di vita.
Al contrario la storia di un popolo orale vive nella voce e non per nulla si dice voce della coscienza, in quanto la coscienza è una voce, né più né meno che il voto, che in molte lingue, e in quelle africane soprattutto, si dice allo stesso modo. Il voto: anche un auspicio o un proposito. Si vede che la catena semantica ci porterebbe lontano e giustifica il concatenarsi di concetti ed idee, connotazioni e suggerimenti che, solo a lasciarsi andare, fuori dalla logica binaria del vero e del falso, arricchiscono la nostra vita.
Le storie di un pastore somalo sono dunque insegnamenti, non taciti, ma espliciti, e l’epica arcaica di un popolo è la sua enciclopedia tenuta a memoria, gli exempla concreti delle sue narrazioni, profondamente interiorizzate, le guide visive a percorsi nella memoria e nelle strade del mondo.
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Non è facile orientarsi nelle vicende antiche dei Somali. Partiti da terre lontane nel nord di quelle dove si trovano ora, parenti alla lontana dei beduini d’Arabia e del popolo della Regina di Saba, essi sono originari di quelle terre che furono la prima culla dell’umanità.
Terre inospitali, desertiche, oggi abitate da altri popoli, e nel loro vagare verso sud, attraverso terre e secoli, giunsero a incontrare due grandi fiumi, lo Shabeelle e il Jubba e molti di essi dimenticarono gli antichi modi di vita, legati alla pastorizia nomade, per diventare agricoltori sedentari.
La leggenda racconta che furono i discendenti di due fratelli a spartirsi, per così dire, tali scelte. La stirpe di Samal continuò la vita nomade più a nord, ma successivamente, alla ricerca di pascoli e di sorgenti per l’abbeverata, anche a sud, in quello che oggi è il Kenya, e a ovest verso le terre dell’Ogadeen che sono sotto la sovranità etiopica. I figli di Saab invece si stabilirono nelle terre tra i due fiumi, dove si trovavano anche altre genti.
I Somali pastori del nord si divisero in diverse stirpi (reer), secondo una tradizione tramandata oralmente di padre in figlio. Quanto ai discendenti di Saab, essi si suddivisero in Digil e Mirifle. I primi sono a loro volta suddivisi in sette diversi clan, mentre i secondi in 22. I clan Digil sono i seguenti: Geledi, Dabarre, Tunni, Jiidda, Garre, Bagedi e Shanta Caleemood (“Quelli delle cinque foglie”). I Geledi sono la gente di Abla, fondatori nel secolo XIX di un potente sultanato che aveva la sua capitale ad Afgooye e giungeva fino a Mogadiscio.
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Abla si è servita di fonti orali, di narratori che hanno registrato intere cassette, che sono state debitamente sbobinate e tradotte. Il lavoro è stato faticoso, ma ne valeva la pena. Perciò desideriamo ringraziare il Dott. Osman Gadale, che purtroppo da allora ci ha lasciato, il Dott. Husein e altri ancora.
Molte delle favole sono state all’inizio raccolte “privatamente”. Alcune di esse le avevamo già sentite in precedenza, e ne siamo grati a Haji Ali, che pure non c’è più, e a Sharif Shami, che non sappiamo dove sia finito durante la guerra. Il grande contributo della nonna Aamina, tuttavia, com’è giusto per una nonna, è stato determinante.
Dire grazie a nonna Aamina significherebbe soltanto voler saldare un debito che non si può comporre con le parole. Ci penserà Samia col suo affetto e ricordando come la sua terra debba tornare a essere popolata da leoni parlanti e wadaad arroganti, ma inoffensivi, da sultani e pastori, da cammelli al pascolo e pescatori... Com’era prima che l’ingordigia e la crudeltà la dilaniassero. Perché possa tornarci a vivere lontano da una falsa civiltà fatta di egoismi e smania di potere e ricchezza.
N.B.si riportano solo alcune delle favole raccolte da Abla Osman Omar
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La donna furba
Vivevano una volta nella boscaglia un uomo con sua moglie che era molto più giovane di lui. Erano lontani da tutto e da tutti ma l’uomo temeva sempre che la moglie lo tradisse. Siccome non aveva pace, un giorno andò da un wadaad e gli chiese come potesse fare per accertarsi della fedeltà della moglie.
Il wadaad si fece dire se avesse dei sospetti fondati, gli chiese se c’era qualche uomo di cui pensasse la moglie si fosse invaghita. Ma l’uomo rispondeva sempre che lui se lo sentiva, ma non aveva visto niente. Solo degli sguardi, dei comportamenti della moglie tradivano il fatto innegabile - così sosteneva - che in realtà pensasse a qualcun altro.
Il wadaad , che era un uomo saggio, vedendo che l’uomo era piuttosto vecchio e malandato, gli disse che finché si trattava di sospetti era meglio che se li togliesse dalla testa: “Finirai col farti male da solo”, gli disse. “Quando delle idee storte entrano nella testa dei figli d’Adamo, finiscono con l’evocare demoni…”
Ma l’uomo non poteva togliersi dalla mente quel chiodo. Un’altra volta il wadaad gli raccomandò di ragionare: se abitavano lontano da tutti e da tutto come poteva essere che la donna, con tutto il lavoro che aveva da svolgere quotidianamente potesse trovare il tempo e il modo per tradirlo?
“Le donne conoscono tutte le astuzie”, rispose il vecchio. “Certo siamo lontani dalla gente, ma spesso devo assentarmi per portare i cammelli al pascolo e chi può dire che cosa succede in quel tempo?” E aggiunse, senza una parvenza di logica, che non avevano figli.
“Per i figli occorre pregare Iddio, eccelso e sublime, che vi conceda questa benedizione. Tutto proviene da Lui e non c’entra certo la fedeltà di tua moglie. Per accertarti della fedeltà della tua casa un modo ci sarebbe, ma sei sicuro di volertene accertare?”
Il wadaad era un uomo saggio e sapeva che certe volte la verità fa più male dell’incertezza. Inoltre temeva che con le sue paure l’uomo avesse davvero messo una pulce nell’orecchio della donna. Comunque non era suo compito se non dare consigli alla gente e se la gente non vuole seguirli, allora peggio per loro.
“C’è una fonte miracolosa vicino a una roccia”, gli spiegò come fare ad arrivarci e dove si trovava, “dove chi si bagna e pronuncia un giuramento, se dice una falsità, viene inghiottito dalle acque. Porta dunque tua moglie in quel posto alla prima occasione e falle giurare che ti è fedele”.
L’uomo se ne andò tutto contento e il giorno dopo, prima di condurre i cammelli al pascolo, disse alla moglie quanto gli aveva riferito il wadaad,convinto che lei stessa fosse contenta di sottoporsi a quella prova.
La donna pensò bene a quanto le stava per accadere e decise di prendere dei provvedimenti. Andò dal suo amante, un giovane che veniva a trovarla ogni volta che il marito si allontanava, e gli disse di trovarsi in un certo posto il giorno dopo fin dalle prime ore dell’alba.
Così fecero. Al mattino seguente quando il marito le disse di prepararsi la donna chiese: “È molto lontano quel posto?”
“Mezza giornata di cammino”.
“Sai che non sono abituata a viaggi così lunghi e le gambe temo non mi sostengano. Vorrei poter montare un somaro per recarmi con te in quel luogo”.
Il marito acconsentì e preparò un asino sul quale la donna montò e si misero in cammino. Quando giunsero al luogo convenuto la donna vide da lontano che il suo amante stava in attesa come gli aveva raccomandato, fingendo di pascolare alcune capre.
Mentre gli si avvicinavano, la donna punse il somarello con una spina e quello con un forte raglio si fermò di colpo e poi si diede a una corsa pazza. La donna, fingendo di non aspettarselo, cadde in terra e nel cadere fece in modo che il guntiino le si impigliasse nel basto. Così, cadendo, si ritrovò nuda.
Il marito, sollecito, fermò l’asino imbizzarrito, poi lo riempì di bastonate: “Stupida bestia, che ti succede? Sei proprio un somaro”, gli disse. Poi raccattò il guntiino e lo restituì alla donna dicendole di rivestirsi, perché c’era un estraneo che la guardava.
La cosa finì lì. Il marito si accertò che la donna non si fosse fatta del male e proseguirono fino alla fonte miracolosa. E lì la donna fece il suo giuramento: “Marito mio, giuro solennemente che nessun uomo ha mai osservato la mia nudità, se non te e quell’uomo davanti al quale sono caduta venendo qui”.
Il marito, finalmente guarito dalla sua ossessione, tornò a casa soddisfatto e da allora non dubitò più della fedeltà della sposa.
Tre uomini tormentati da un’infezione
C’erano tre uomini che, oltre a essere colleghi di lavoro, erano anche amici. Un giorno si ammalarono contemporaneamente di tre malattie, una diversa dall’altra. Il primo infatti aveva un’infezione alla testa, il secondo alle mani, il terzo invece alle labbra.
Poiché erano dei commercianti decisero di partire per i loro affari tutti e tre insieme per potersi aiutare a vicenda in quelle condizioni. Prima di partire per il lungo viaggio, tuttavia, si fecero una promessa. Nessuno dei tre, durante quel periodo, avrebbe toccato la sua ferita, per non infiammarla ulteriormente e attirare l’attenzione della gente.
Così quello che aveva l’infezione alla testa non poteva scacciare le mosche che lo infastidivano. Quello dalle mani infette non si poteva grattare, e infine quello dalle labbra ferite non poteva umettarsele con la saliva.
Purtroppo la promessa era difficile da mantenere, poiché il viaggio si preannunciava molto lungo e il prurito era tanto. Così per non pensarci, ognuno dei tre si immaginò una storia da raccontare agli altri per ingannare il tempo.
Cominciò per primo a narrare l’uomo che aveva l’infezione alla testa e così parlò.
“Una volta facevo la guardia a una piantagione, facevo, insomma, lo spaventapasseri. Un giorno arrivarono tanti uccelli e, siccome, il granturco era maturo, cominciarono a mangiarselo. Io allora presi una frusta e li cacciai. Così”.
E mentre diceva “così” , raccontando la sua storia, fece un gesto con la mano, scacciando tutte le mosche che lo tormentavano sulla testa.
Gli altri due si resero subito conto di quanto era stato furbo il loro amico che aveva trovato un modo per alleviare la sua pena, senza apparentemente infrangere il patto stretto con gli altri due.
L’uomo dalle mani infette prese allora la parola e disse: “Adesso vi racconto io una storia. Una volta mi imbattei in due tori che stavano litigando. Erano tutti e due grandi e forti e si misero a combattere a lungo, senza che nessuno dei due riuscisse a prendere il sopravvento sull’altro. E si scontarono e lottarono così”.
Gesticolando per far meglio capire i movimenti dei due tori che lottavano, l’uomo si grattava le mani e così riuscì ad avere un po’ di sollievo dal prurito.
Adesso toccava a quello dalle labbra infette a parlare.
“Un giorno portai i cammelli al pascolo”, disse. “A un certo punto uno dei cammelli cominciò a schiumare. E non la smetteva più, proprio così”.
In tal modo anche lui riuscì a umettarsi le labbra, provando un grande sollievo e senza dar a vedere che infrangeva il patto.
Alla fine i tre amici si guardarono in faccia e senza dire una parola si misero tutti e tre a ridere di cuore. Poi ripresero il loro viaggio.
La moglie infedele
Nella città di Zabîd, oltre il mare c’era un giovane che decise un giorno di andare in cerca di fortuna e siccome era forte e intelligente riuscì in breve a diventare un bravo mercante, conosciuto e rispettato.
Decise allora di attraversare il mare in cerca di nuovi orizzonti. Così giunse in una città governata da un Sultano. Questo Sultano era un uomo buono, ma un po’ sempliciotto. Malgrado fosse di età avanzata aveva per moglie una donna molto giovane e bella.
Il giovane la vide mentre stava facendo il bagno nella parte più riservata dei giardini del palazzo, mentre passeggiava per la città. Infatti, visto l’alto muro che cingeva il giardino, lo considerò una sfida.
“Ho attraversato il mare in cerca di fortuna, non sarà un muro a fermarmi”, pensò. “Voglio vedere che cosa c’è al di là”. Si arrampicò con agilità sul muro, nascosto dalla vegetazione e guardò. Come vide la moglie del Sultano se ne innamorò e tanto fece che un giorno riuscì ad attirare la sua attenzione e a parlarle di nascosto dalle sue ancelle.
I due divennero amanti. Per facilitare gli incontri e rischiare meno, il giovane comperò una casa vicino alle mura del palazzo del Sultano e scavò una galleria che portava direttamente all’interno del palazzo. Poi diede una cena sontuosa e chiese l’onore di invitare il Sultano, dichiarandogli che intendeva stabilirsi in città e impiantarvi i suoi commerci.
Il Sultano in breve divenne amico dell’uomo e lo invitò a sua volta. Il giovane però non era soddisfatto della situazione. Essendosi innamorato della moglie del Sultano egli non voleva dividerla con lui. Ma come fare? Rapirla era impossibile. Il Sultano avrebbe mandato i suoi sgherri a inseguirli e presto li avrebbero trovati e uccisi. La donna soprattutto aveva paura e si rifiutava di seguirlo.
Il giovane allora decise di ricorrere a uno stratagemma. Una sera invitò il Sultano a casa sua. Poi di nascosto si recò dalla donna e le disse: “Questa sera tuo marito verrà a casa mia. Verrai anche tu, passando dalla galleria. Se lui non ti riconoscerà allora tu verrai via con me”.
La donna accettò. La sera il Sultano venne e il giovane gli presentò la donna, che aveva appena sposato, come fosse sua moglie.
Il Sultano impallidì e corse a palazzo. Entrò nelle stanze della moglie, che nel frattempo era tornata indietro attraverso la galleria, e la vide. Allora di nuovo corse alla casa del giovane, ma la moglie lo aveva preceduto e trovò la donna lì, accanto al giovane.
Il giovane a sua volta chiese che cosa fosse successo, fingendo di non capire.
“È una cosa straordinaria”, disse il Sultano. “Se non fosse che ho visto con i miei occhi mia moglie nel palazzo proprio ora, avrei giurato che si trattava della stessa donna. Tua moglie gli assomiglia come una goccia d’acqua a un’altra”.
Il giovane rise e fece finta di meravigliarsi. “Si dice che ognuno di noi, nel vasto mondo, abbia un sosia”, sostenne. E i due finirono di cenare.
Quando la cena fu finita il Sultano si congedò e il giovane gli annunciò che stava per partire, perché voleva portare i suoi affari in altre città. Così si salutarono e il Sultano tornò a palazzo dove, scosso per tutti gli avvenimenti, se ne andò a letto di filato.
“Ora mantieni la tua promessa”, disse allora il giovane alla donna, “e vieni via con me”. Una nave li stava aspettando e la donna, messi assieme i suoi ori e i suoi gioielli se ne andò via col giovane e nessuno ne seppe più niente.
La riconoscenza dell’uomo
Un uomo arrivò un giorno con i suoi cammelli a un pozzo e gettò il secchio per attingere acqua. Poiché pesava si chiese se per caso avesse tirato su qualcosa di strano e, infatti, nel secchio vide che c’era un serpente.
“Grazie per avermi salvato”, gli disse il serpente. “Ero caduto per errore nel pozzo e non sapevo come fare. Ma sul fondo sono restati ancora uno sciacallo, un leone e un uomo. Ti prego di aiutarli e di salvarli. Ma non tirare su l’uomo. Te ne pentirai”.
L’uomo rimase perplesso a queste parole, ma poi gettò di nuovo il secchio e tirò su prima il leone che gli fece un discorso analogo: “Salva lo sciacallo, ma lascia stare l’uomo ché tanto non ti sarà riconoscente”.
L’uomo tirò su lo sciacallo che gli fece il solito discorso, ma pensò: “Ho salvato degli animali, com’era giusto. Ma sarà che io lasci un figlio di Adamo laggiù, senza fare niente per lui?”
Gettò di nuovo il secchio e tirò su l’uomo. Questi uscì dal pozzo, lo ringraziò e se ne andò.
L’uomo abbeverò le sue bestie, poi riprese il cammino. Passò del tempo e venne una grande siccità. L’uomo vide le sue bestie morire a una a una e il resto del suo armento si disperse alla ricerca di acqua.
L’uomo andò nel deserto per cercare di recuperare il bestiame perduto. Era caldo e presto la sete e la fame lo assalirono. Stava per morire, quando un serpente sbucò fuori da una roccia e gli chiese: “Uomo, mi riconosci?” “No, chi sei?”
“Sono il serpente che tu salvasti una volta dal pozzo. Perché sei venuto qui nel deserto?”
“Sto cercando il mio bestiame che si è perduto”.
“Vorrei aiutarti”, disse allora il serpente. “Stenditi all’ombra di queste rocce e provvederò a trovarti del cibo”. Poi si appostò e appena un dikdik si trovò da quelle parti lo morse e portò la carne all’uomo che si rifocillò e poté riprendere il cammino.
Per poco: presto vide un leone che gli veniva incontro e si spaventò a morte. Ma il leone lo tranquillizzò.
“Non ti ricordi di me? Sono il leone che salvasti dal pozzo, tanto tempo fa. Come mai ti trovi in questa difficile situazione?”
L’uomo si rallegrò della fortuna che gli era toccata e gli raccontò la sua storia. Il leone allora: “Voglio aiutarti. Se mi segui lungo questo sentiero ti porterò a una sorgente che nessuno consoce perché frequentata dai leoni. Tutti se ne tengono lontani, ma io ti permetterò di bere”.
Così fecero e l’uomo poté risolvere il problema della sete. Ringraziò il leone e proseguì il suo cammino.
Purtroppo non riusciva a trovare i suoi cammelli e un giorno, quando era ormai stanco e sfiduciato, si imbatté in uno sciacallo. Era quello che lui aveva tratto dal pozzo e per riconoscenza gli chiese se poteva aiutarlo.
“Ho fame e non so come fare, perché non sono un cacciatore”.
Detto fatto, lo sciacallo corse via e andò in un accampamento vicino dove avevano appena macellato un capretto. Si appostò e approfittando della distrazione della gente, rubò il capretto e lo portò al suo amico, che poté sfamarsi e riprendere il viaggio.
Arrivò così all’accampamento dove lo sciacallo aveva rubato il capretto. Siccome aveva ancora con sé la pelle, un uomo che si trovava là lo accusò del furto.
“Sei stato tu a rubare il mio capretto”, gli disse.
Fu inutile che l’uomo cercasse di spiegare, quello sbraitava a più non posso. L’accusato però all’improvviso si ricordò. Guardò l’uomo che lo accusava e si accorse che era lo stesso che aveva salvato dal pozzo.
“Ma tu non sei il Tale?”, gli chiese. “Quello che un giorno io tirai fuori da un pozzo nel quale eri caduto?”
“Io?” rispose l’uomo. “Ma neanche per sogno”. Poi vergognandosi per la sua ingratitudine, per non dover rispondere a domande imbarazzanti se ne andò dicendo: “Quest’uomo dev’essere impazzito per il caldo. Fatevi pagare il capretto e lasciatelo andare.
L’uomo se ne andò. Intanto gli animali si erano messi in cerca del suo bestiame e l’avevano trovato. Così glielo riportarono. L’uomo raccontò la sua avventura ed essi commentarono: “Non ti avevamo detto di lasciare quell’uomo nel pozzo? Non sai che non esiste un animale più irriconoscente dell’uomo?”
I babbuini e i macachi
C’era una volta una tribù di macachi che viveva vicino a una tribù di babbuini. Stavano insieme in boscaglia pacificamente, finché un giorno qualcuno scoprì un vasto terreno disabitato.
Da quel momento ciascuna delle due tribù volle accaparrarselo e scoppiarono liti tremende e dalle liti si passò alle zuffe.
Non riuscendo nessuna delle due ad avere la meglio, ma volendo ciascuna il terreno tutto per sé, i capi decisero che per conquistare tale diritto avrebbero dovuto contenderselo in battaglia.
Così decisero che chi avesse vinto si sarebbe tenuto il terreno e fissarono lo scontro per il giorno seguente. Su tale decisione si separarono.
Ognuna delle due tribù si diede subito da fare per prepararsi al combattimento. Ma tra i macachi sorse subito un problema. Poiché i macachi sono una razza di scimmie più piccole dei babbuini ed essendo meno numerosi, mentre quelli erano grossi e con grandi denti e numerosissimi, bisognava trovare una soluzione per pareggiare le forze.
Così una delegazione dei macachi si recò dal capo ed espose la questione. Si sa che i capi sono saggi per natura. Così era il capo della tribù dei macachi, che ascoltò, pensò e ripensò a tutto quello che gli era stato detto. Alla fine diede il suo responso: “Non è la forza che determina la vittoria e neanche il numero dei combattenti,” disse. “Ciò che veramente decide le sorti di una battaglia è la qualità del combattimento, il modo in cui vengono svolti”.
Così spiegò come avrebbero agito all’indomani. “Prima dello scontro, ognuno di voi si leghi un ramo di spine alla coda e lasciatelo strisciare per terra in mezzo alla polvere. Così radunerete nuvole di terra che lascerete depositare sul terreno dello scontro
I macachi si misero subito al lavoro di buona lena e per tutta la notte accumularono terra e polvere sul luogo della battaglia.
Quando giunse l’ora, i babbuini arrivarono molto baldanzosi e sicuri di sé. I macachi allora si misero in fila e cominciarono a correre, creando vortici di polvere. Poi si misero a strillare con quanto fiato avevano in gola.
I babbuini, che erano arrivati impreparati, sicuri di vincere, si chiesero che cosa stesse succedendo e cominciarono ad aver paura. Più i macachi correvano urlando e facendo chiasso, più lo sgomento cominciò a serpeggiare tra i babbuini, storditi dalla polvere e dalla confusione. I rami di spine legati alla coda dei macachi li ferivano, mentre le piccole scimmie, con la loro velocità sembravano imprendibili.
Alla fine i babbuini non resistettero e si diedero alla fuga e i macachi ebbero la vittoria.
L’asina e la capra
Due vicini avevano uno una capra e uno un’asina. Erano entrambe gravide, ma la notte in cui partorirono la capra figliò un capretto morto.
Il suo padrone allora seppellì il corpicino di nascosto, quando ebbe saputo che l’asina del vicino aveva partorito un bel somarello. Poi aspettò che quegli fosse andato a letto, entrò nel recinto dove stava l’asina e rubò l’asinello.
La mattina seguente ebbe la sfrontatezza di andare in giro dicendo: “La mia capra ha partorito stanotte”.
Il vicino, non trovando il somarello accanto alla madre si chiese che cosa fosse successo. Andò dal vicino e vide che accanto alla capra stava un bel somarello che ciucciava il latte dalle sue mammelle.
“Ma quello è il mio asinello”, disse prontamente.
“Come puoi affermare ciò?” rispose l’altro, subito. “Non vedi come prende il latte soddisfatto dalla madre?”
Insomma cominciarono a litigare e la cosa finì davanti al giudice.
L’assistente del giudice era un uomo poco intelligente e corruttibile. Si prese dei soldi dal padrone della capra ed emise un verdetto a lui favorevole, dopo aver finto di ascoltare le ragioni di entrambi.
“Dio è grande”, concluse. “Per Lui tutto è possibile e le ragioni del padrone della capra mi sembrano inoppugnabili”.
Ma il padrone dell’asina non era soddisfatto e chiese che anche il giudice si pronunciasse. Il suo sostituto, pur sapendo che il giudice non si scomodava facilmente per piccole cose, lo mandò a chiamare.
Il giudice, che aveva udito tutto, fece rispondere che non poteva venire in tribunale perché quel giorno aveva le mestruazioni.
L’aiutante sbottò in una risata. “Ma da quando gli uomini hanno le mestruazioni?”
Il giudice allora entrò e disse: “Da quando le capre partoriscono somarelli, naturalmente”. E lo mandò via.