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le ciabatte dello zio umberto

mark mcwatt

Zio Umberto era il fratello maggiore di mio padre ed era famoso per due ragioni: le sue storie di fantasmi e di strani fatti a lui accaduti, e le dimensioni non comuni delle sue ciabatte. Zio Umberto aveva dei piedi enormi: nessun negozio vendeva scarpe grandi abbastanza. Ricordo che, quando ero piccolo, tentava di indossare le ubique infradito di gomma che noi tutti avevamo. Zio Umberto si procurava la taglia più grande che riuscisse a trovare, ma quando le calzava le suole scomparivano, coperte del tutto dalle immense piante dei piedi; si vedevano solo due cinghie colorate, al massimo della tensione, emergere da sotto il bordo calloso dei piedi piatti per poi sparire tra le dita. Quelle ciabatte non avevano mai una vita lunga e si narra che zia Teresa, sua moglie, ne comprasse sei paia per volta, possibilmente dello stesso colore perché nessuno si accorgesse della velocità con cui zio Umberto riusciva a farle fuori.
Ma tutto ciò avvenne prima che zio Umberto avesse le sue famose ciabatte. Si dice che, durante una delle rare visite in città, lo zio fosse rimasto per tutto il giorno immobile davanti al banco di un ciabattino al mercato grande a guardare un uomo rasta che realizzava calzature con brandelli di pneumatico e cinghie di cuoio. Quando era tornato a casa, lo zio si era messo al lavoro per fabbricare il suo leggendario paio di ciabatte. Sembra che non ci fossero pneumatici abbastanza grandi per fare la suola, così lo zio prese a scandagliare il cantiere dei lavori pubblici in città e spuntò con uno pneumatico da camion Firestone con una profonda scolpitura apparentemente in buone condizioni, sostenendo di aver ‘avvisato’ il guardiano e che l’uomo gli avesse fatto cenno dal cancello. Da quello ritagliò le suole. Data la lunghezza, le ciabatte non aderivano al terreno, ma si arricciavano all’altezza di tacco e punta, mantenendo la forma ricurva dello pneumatico; questo naturalmente quando non contenevano i piedi giganteschi dello zio. Ciascuna ciabatta aveva tre strisce parallele di cuoio inarcate sulla parte anteriore che assicuravano i piedi alla suola. Intorno al tallone non c’erano cinghie. Lo zio aveva creato quelle calzature perché gli durassero tutta la vita: erano lunghe cinquantacinque centimetri, larghe venti e quasi cinque di spessore. L’ultima volta che la misurai, quattro anni prima della sua morte, la scolpitura della suola era profonda tre centimetri; allora avevo dodici anni e iniziavo ad appassionarmi alla famiglia, ai suoi personaggi meravigliosi e alle sue stramberie.
Un ulteriore dettaglio riguardo alle ciabatte è che nello spessore delle suole erano incise le iniziali dello zio: H.I.C., Humberto Ignatius Calistro; la ‘I’ centrale alta il doppio rispetto alle altre due lettere (lo zio scriveva sempre il suo nome con la ‘H’, ma si irritava oltremodo se qualcuno osava pronunciarlo con l’acca aspirata. Per sicurezza, noi bambini decidemmo di abolire l’H anche nello scritto e lui ne fu piuttosto felice). Incidere le iniziali mi sembrò un totale spreco di energie: non esisteva al mondo un paio simile di chiatte camuffate da ciabatte.
Quello divenne il marchio di fabbrica dello zio: prima spuntavano le ciabatte, e solo dopo arrivava anche il resto. Spesso non c’era nemmeno bisogno di vederle: un’impronta fangosa sul ponte per lo spaccio di rum di Arjune ci rivelava che lo zio era là ‘a rilassarsi con gli amici’. Intanto a casa (abitavamo tutti insieme in un edificio enorme costruito dalla nonna negli ultimi trent’anni della sua vita) mio padre sbottava: «Ecco Umberto, presto servite da mangiare». Noi lo guardavamo perplessi, lui faceva spallucce e diceva: «Sento le Firestone che salgono la collina», e dopo pochissimo udivamo tutti le scale di legno gemere inequivocabilmente sotto il peso dei passi di zio Umberto.

* * *

Mio nonno, che non ho mai conosciuto, era un marinaio; da giovane aveva lavorato sui traghetti fluviali del governo e sui piroscafi a vapore lungo la costa, ma poi, dopo due figli e i litigi con la nonna, aveva iniziato ad allontanarsi a bordo di navi più grandi. Spesso non si faceva vivo per un anno o anche più, ma ogni volta che tornava metteva incinta la nonna, ricominciavano i litigi e ripartiva di nuovo finché gli scontri tormentosi non si dissolvevano nella memoria in romantici battibecchi, al che ritornava e la tiritera si ripeteva. Dopo il quarto figlio, rientrò col proposito di restare definitivamente e sposò la nonna a riprova delle sue intenzioni, ma quando dalla pancia della moglie iniziò a profilarsi un quinto figlio, lui si intristì talmente tanto (diceva lei) e assunse un’aria così oppressa e derelitta che, per il suo bene, la nonna lo buttò fuori di casa e gli disse di non tornare finché non si fosse ricordato come si deve comportare un vero uomo. Il loro rapporto fluì e rifluì come i grandi fiumi che avevano governato le loro vite e il loro destino. Ebbero nove figli, due dei quali, come diceva la nonna, Dio volle chiamare a sé entro il primo anno di vita.
Il ciclo dei ritorni e delle partenze del nonno (e delle gravidanze della nonna) si interruppe quando il nonno si trovò coinvolto in una lite in un porto straniero, venne derubato di tutti i soldi da alcuni delinquenti, pestato e lasciato a morire in uno di quei vicoli portuali bui e disperati che ero in grado di immaginare perfettamente grazie alla mia timida inclinazione per i film sui gangster americani. Se non altro, questa è la versione della storia della sua morte che mi fu raccontata da bambino. Quando raggiunsi l’adolescenza e le mie orecchie si sintonizzarono sui discorsi da adulti – soprattutto quelli sussurrati – iniziarono a giungermi versioni differenti: sì, quegli uomini lo avevano ucciso, ma perché aveva barato a carte e aveva vinto tutti i loro soldi; che era morto a New Orleans in un bordello, nel letto di una donna di una bellezza straordinaria di nome Lucinda, ucciso da un rivale geloso; perfino che era stato catturato su una nave che trasportava stupefacenti negli Stati Uniti, gettato agli squali dai federali che avevano abbordato l’imbarcazione… A ogni modo quando morì era ancora giovane.
La nonna portò il lutto per trent’anni intraprendendo un progetto costruttivo di dimensioni enormi: la casa in cui vivevamo. Decise di portare la famiglia lontano dall’aria insalubre della capitale sulla costa e di costruire una casa su una collina a monte del fiume e della cittadina mineraria in cui era nata. La prima fetta della casa (‘la scatola da scarpe’, come la chiama mio padre) fu costruita da un carpentiere amico della nonna che nutriva la speranza di poter prendere il posto del nonno nel suo cuore e, in definitiva, nella casa che stava tirando su per lei. A quanto si dice, la nonna lo incoraggiò e lo tenne sulla corda, come Penelope, finché la casa non fu abitabile; poi, trasformandosi in Ulisse, litigò con lui in pubblico e lo cacciò via. La seconda fetta della casa venne costruita quando zio Umberto, il figlio maggiore, fu abbastanza grande da mettersi al lavoro e, nei venti anni che seguirono, aggiunse periodicamente una ‘scatola da scarpe’ dietro l’altra finché la casa non raggiunse l’aspetto attuale: una gigantesca struttura a due piani dai corridoi labirintici e innumerevoli camere e bagni (nessuno dei quali è mai stato ultimato) e le quattro ‘stanze-torre’, una per angolo, che si stagliano sopra gli altri tetti e offrono un panorama meraviglioso della città, del fiume e della foresta circostante. È in una delle quattro torri – quella che chiamiamo ‘stanza dei libri’ – che mi sono ritirato per scrivere questo racconto.
Quando zio Umberto iniziò a bonificare il terreno per scavare le fondazioni della terza ‘scatola da scarpe’ (nell’anno della grande siccità), disse che una notte aveva visto una luce, come di qualcuno che agitava una torcia elettrica, provenire da una delle secche emerse dal fiume. Il mattino successivo scorse sulla secca quello che sembrava un bambino in difficoltà, perciò scese al fiume, salì sulla canoa e iniziò a remare. Quando si avvicinò alla secca, si rese conto che si trattava di un vecchietto nudo, alto poco più di un metro, con qualche ciuffo di barba e un enorme pene ricurvo. Quell’uomo gesticolò come un forsennato allo zio, indicandogli di avvicinarsi e, appena il remo della canoa urtò la sabbia, di non andare oltre. Lo zio giurò che l’ometto lo tenne come paralizzato sulla poppa della barca e gli parlò a lungo in una lingua che lui non conosceva. In qualche modo, però, lo zio riuscì a capire che l’uomo gli stava dicendo di non costruire l’ampliamento della casa perché molto tempo prima, in quel luogo, era stato sepolto un capo indiano.
La nonna, che aveva vissuto per i suoi primi quindici anni a bordo dello sloop del padre e aveva visto tutto quel che c’era da vedere lungo le coste e i fiumi, non credeva ai fantasmi, tantomeno agli spiriti vaganti e, quindi, fu irremovibile quando lo zio suggerì di rinunciare al secondo ampliamento della casa. Per accontentarlo, la nonna permise allo zio di scavare tutto il rettangolo di terra e, quando non furono trovate ossa, disse: «Okay, Umberto, ti sei divertito, ora fai la persona seria e costruisci queste due stanze perché tuo fratello Leonard possa sposare la donna con cui vive nel peccato e trasferirsi qui col resto della famiglia. È più importante evitare di offendere Dio che preoccuparsi di un antico capo indiano che, comunque, dubito fosse cristiano.»
Così lo zio costruì la scatola da scarpe malgrado i propri timori, ma il giorno precedente il matrimonio, ci fu un incidente alla segheria dove lavorava suo fratello Leonard: un tronco di greenheart1 gli rotolò addosso schiacciandolo contro la lama rotante che gli tagliò il corpo in due proprio sotto il petto. Tutti convennero che si fosse trattato di un incidente, tranne Umberto che ne conosceva il vero motivo. Zia Irene, la moglie di zio Leonard, a quel tempo visibilmente incinta, si trasferì lo stesso nella nuova ala e, da allora, lei e mio cugino Lennie entrarono a far parte della famiglia. Zio Umberto, che non ebbe mai figli, divenne come un padre per Lennie e lo prese particolarmente a cuore, sostenendo che il bambino, fin da piccolo, avesse sempre avuto un pene enorme e ricurvo identico a quello del vecchietto sulla secca. Di quando in quando, zio Umberto aveva delle visioni in quella parte della casa, sia del fratello Leonard, sia del capo indiano, quest’ultimo adornato di un copricapo piumato e di un perizoma ornato di perline, seduto in modo bislacco sul letto o sulla scrivania di mogano di zia Irene.
Gli altri abitanti della casa sono i miei familiari – Papi, Mami, mia sorella Mac, i miei due fratelli e me – mio zio John, l’avvocato, e sua moglie zia Monica, mio zio ‘Phonso e i quattro figli che mia zia Carmen ha avuto da quattro uomini diversi prima di mettere la testa a posto e trasferirsi negli Stati Uniti, dove adesso lavora in una fabbrica di aerei e vive con un ex-monaco che non sopporta i bambini. Anche l’altra sorella di mio padre ha sempre vissuto negli Stati Uniti, a quel che ricordo.
In realtà, nemmeno mio zio ‘Phonso vive con noi – è il minore e, a quanto dicono, quello che assomiglia di più a suo padre, sia per le doti di marinaio, sia per l’irrequietezza e lo spirito ribelle. ‘Phonso ha rilevato la gestione dello sloop della nonna (che traghetta su e giù per il fiume, le coste e le isole limitrofe, come ha sempre fatto, impiegato per il piccolo commercio e per un po’ di innocuo contrabbando), e ha sempre sostenuto di non poter vivere sotto lo stesso tetto con la ‘vecchia strega’ (sua madre). Sullo sloop ha trascorso quasi tutta la vita. Per ogni viaggio lungo, porta con sé una diversa compagna («…per darmi il tormento, costringermi a pregare e ad accendere una candela dietro l’altra per la sua anima dannata», diceva la nonna). Una volta l’anno lo sloop ormeggiava sulle rive del fiume sotto casa e ci restava per quattro o cinque settimane per permettere a zio Umberto di sostituire il fasciame e le assi marce, calafatarle e ridipingerle. In quel periodo, zio ‘Phonso trascorreva le vacanze nella sua ala della casa
. Zio John, l’avvocato, è il più serio dei fratelli di mio padre, benché non sia un vero avvocato. Da che ricordo, ha sempre lavorato nell’ufficio dell’amministratore distrettuale, ‘studiando’ legge, con indosso camicie a righine, cravatte classiche, abiti scuri e scarpe nere tirate a lucido. Il suo apprendistato alla professione si è ormai trasformato in un’incessante prova d’abito. Da oltreoceano gli sono arrivati pacchi di libri e altri scritti (negli ultimi anni in modo più sporadico) e tutti noi siamo sempre stati impressionati dalla sua solerzia nello studio, ma, a quanto ne so io, non ha mai sostenuto un esame. Il salario da impiegato nell’ufficio distrettuale permette a lui e zia Monica di condurre una vita agiata, ma i due hanno convenuto di non aver figli finché lo zio non avrà raggiunto la qualifica. Nei primi anni di matrimonio, la coppia era oggetto di crudeli sbeffeggiamenti per essere ancora senza figli. Papi diceva: «Ehi, Johnny, sei sicuro di aver sposato Monica Suarez e non Rima Valenzuela?». Rima Valenzuela era una donna bellissima e affettuosa, rinomata in tutta la cittadina per la sua sterilità. Sin dall’adolescenza, aveva sempre desiderato avere dei figli che provava a concepire con l’aiuto di una lista di uomini in continuo aumento (tra cui, si diceva, uno o due dei miei zii). Girava voce che fosse vicina ai quarant’anni e che, dalla disperazione, avesse iniziato ad accettare quello che la gente le diceva da anni: di essere sterile.
Ogni primo dell’anno dopo la messa, la gente diceva a zio John: «Be’, Johnny, questo è l’anno fortunato: non dimenticare di invitarmi quando ti chiameranno alla sbarra.» Ma nessuno credeva realmente che sarebbe diventato un vero avvocato. Un anno zio ‘Phonso gli diede un colpetto sulla schiena e, per consolarlo, gli disse: «Non importa, fratello, c’è una sbarra enorme a tre o quattro chilometri a valle; posso portarti lì in sloop ogni volta che vuoi, così puoi dire a quegli idioti che sei stato chiamato alla sbarra, non ti è piaciuta e hai cambiato idea.»
In un certo senso, zia Monica era ossessiva quanto zio John. Secondo Papi dipendeva dal fatto che non aveva figli a tenerla occupata e coi piedi ben piantati per terra. Sembrava aver dedicato la vita alla pulizia e all’ordine, non solo assicurandosi che l’abbigliamento da avvocato di zio John fosse sempre impeccabile, ma lavando e, soprattutto, stirando più del normale ogni pezzo di stoffa nella loro ala della casa: fazzoletti, lenzuola o tende. Zia Monica trascorreva minimo tre o quattro ore tutti i giorni ad accertarsi che ogni singolo lembo di stoffa di sua proprietà fosse lindo, inamidato e splendente. Aveva tavole da stiro attaccate alle pareti in ognuna delle tre stanze che lei e zio John occupavano e non smetteva di incitare gli altri membri della famiglia a istallarne di simili. Una volta, quando la nonna esclamò: «Quanti bambini! La casa inizia ad affollarsi. Umberto, dovremmo pensare ad aggiungere alcune stanze», Papi sbottò: «E per cosa? Perché Monica possa attaccare altre tavole da stiro estraibili?», e tutti scoppiarono a ridere.

* * *

Una mattina eravamo tutti al tavolo di cucina a finire di fare colazione, pronti per andare a lavoro o a scuola, quando zio Umberto irruppe nella stanza in tenuta da notte (un paio di boxer e una vecchia canottiera) con un’aria stanca e frastornata. Ci girammo tutti verso di lui, ma prima che qualcuno gli rivolgesse la parola, disse: «Gente, stanotte non ho chiuso occhio ripensando a una cosa strana che mi è capitata ierisera.» Tutti noi subodorammo una delle sue solite storie di fantasmi e drizzammo le orecchie in attesa. Io mi ero appena alzato dal tavolo per ripassare un po’ prima di andare a scuola, ma rimasi impalato ad ascoltare.
«Ieri, proprio mentre il sole stava calando, facevo la mia solita passeggiata lungo il sentiero che domina il fiume; lo sapete che mi piace guardare il tramonto e le barche che risalgono la corrente per portare a casa la gente che lavora in città. All’improvviso, appena ho raggiunto quella grande roccia che sovrasta il fiume a Mora Point, mi è apparsa dal nulla questa donna bianca, proprio in cima al masso. Era come se fosse salita fluttuando o volando sul fiume e si fosse posata lassù. Indossava un abito azzurro chiaro, brillante come quelle grosse farfalle blu…»
«Una morpho», intervenne mio fratello Patrick, il saputone. E anche Papi dovette dire la sua.
«Un abito azzurro brillante, eh? Chissà che non ci sia passato il ferro di Monica!» Ma entrambi furono fatti tacere e zio Umberto poté proseguire con il suo racconto.
«Mi ha fatto cenno di salire sulla roccia, così mi sono arrampicato e mi sono seduto accanto a lei. Ha iniziato a farmi un sacco di domande – sulla mia età, il mio lavoro, da quanto tempo vivo da queste parti e se ho mai viaggiato oltreoceano – e aveva una strana borsa nera squadrata. Be’, innanzitutto, visto che era una bianca, mi aspettavo che parlasse straniero, come un’americana o un’inglese, invece sembrava una di noi.» Tacque e si guardò intorno. «Poi, dopo avermi fatto parlare per dieci o quindici minuti, mi sono arrischiato a chiedere da dove venisse lei piuttosto, ma è scoppiata a ridere e indicandomi ha detto: ‘Oh, non è importante, seitu l’argomento principale della conversazione’», e zio Umberto si toccò due volte il petto. «Poi, come se avesse percepito che iniziavo a sentirmi in imbarazzo, ha detto: ‘Scusami, non voglio trattenerti oltre, puoi continuare la tua passeggiata se vuoi.’ A quel punto ero come ipnotizzato, sono sceso dal masso fin sul sentiero e ho ripreso a camminare.
«Eh-eh, quando sono tornato in me, due o tre secondi dopo, mi sono girato e quella donna era scomparsa! Sono corso alla roccia e non l’ho vista da nessuna parte. Ho guardato su e giù per il sentiero, sul fiume, ma non c’era segno della donna, solo un’enorme farfalla blu che svolazzava vicino ai cespugli sul lato del dirupo…»
Era Umberto d’annata. Zio John esclamò: «Ragazzo, hai ancora la stoffa… Come le racconti tu, non le racconta nessuno.»
«Giuro su Dio», ribatté Umberto. «Vi ho raccontato quello che mi è successo per filo e per segno. Non è una storiella inventata.»
Ancora meditando sull’esperienza di zio Umberto, stavamo tutti per riprendere i preparativi per scuola e lavoro, quando zia Teresa parlò con un tono di voce insolitamente angosciato.
«Umberto, non so chi hai visto o pensi di aver visto, ma devi stare attento quando tratti con strane donne che fanno un sacco di domande – dici che ti aveva ipnotizzato, be’, molti uomini finiscono per perdere la testa – per non parlare dell’anima – per donne del genere. Il giorno in cui deciderai di instaurare qualcosa di personale con lei, faresti meglio a dimenticarti di me, perché non voglio aver niente a che fare coi demoni…»
Era una reazione davvero strana da parte di zia Teresa che di solito liquidava le idiosincrasie e le ‘bizzarre’ esperienze del marito con un sorriso complice e una strizzata d’occhio a noi altri. L’apprensione di zia Teresa sembrò diffondersi a tutte le donne della casa. Notai che, mentre Teresa parlava, Mami si era fatta d’un tratto molto seria e zia Monica, preoccupata e smaniosa, si era avvicinata al frigo dove mi trovavo e aveva iniziato a sbottonarmi la camicia di scuola. Quando raggiunse l’ultimo bottone e iniziò a tirare fuori i lembi dai pantaloni, la conversazione si spense e tutti ci guardarono.
Scandalizzato e indeciso su come reagire a quella svestizione, sorrisi nervosamente e dissi: «Ehi, zietta, non so quali siano le tue intenzioni, ma dobbiamo proprio farlo qui davanti a tutti?»
Ci fu uno schiamazzo generale di risate e zia Monica tolse le mani dalla camicia come se si fosse punta; ma si riprese prontamente, mi mollò uno schiaffo e disse: «Non fare il buffone con me, ragazzo, potrei essere tua madre. E poi, tutti sanno che ti sto togliendo questo misero esemplare di camicia sgualcita per darci una ferrata veloce e vedere se riesco a farti avere un aspetto più decente. Se tua madre non sa fare in modo che i suoi figli siano presentabili (e tu, signorino, sei il peggiore), allora dovrà farlo qualcun altro, per il buon nome della famiglia che rappresenti…» Allorché ebbe pronunciato quelle parole, aveva già attraversato la cucina sventolando la camicia dietro di sé.
Lì per lì non ce ne rendemmo conto, ma la storia di zio Umberto segnò l’inizio di una strana sequenza di eventi che si sarebbero abbattuti su di lui e che ci avrebbero ossessionato per lungo tempo.
Nessuno si sorprese quando, alcuni giorni dopo, confessò di aver rivisto la donna che, stavolta, aveva passeggiato insieme a lui su e giù per il sentiero lungo il fiume, ma il mistero si sciolse per me quando un giorno entrò nella mia aula di scuola accompagnata dal maestro, Mr. Fitzpatrick, una certa Miss Pauline Vyfhuis, un’accademica che stava facendo ricerche per una tesi in Linguistica applicata. Portava con sé un registratore in una scatola di pelle nera e ci disse che il professor Rickford dell’università l’aveva incaricata di registrare le voci degli abitanti del posto per il suo lavoro. Quando tornai a casa e feci l’annuncio alla famiglia, tutti presero per buono che Miss Vyfhuis dovesse essere la donna farfalla di zio Umberto, tutti tranne zio Umberto; affermò di aver parlato a lungo con quella signora e che gli aveva confermato di saper apparire e sparire a suo piacimento; che sapeva volare e fluttuare nell’aria e che un giorno lui (zio Umberto) avrebbe potuto accompagnarla, librandosi dalla roccia verso luoghi inimmaginabili per noi tutti.
«Umberto, prima di decollare sul fiume», obiettò Papi, «assicurati di esserti tolto le quattro per quattro dai piedi, nel caso ti appesantiscano e ti facciano cadere nel fiume e affogare.»
Ignorando Papi, zio Umberto continuò dicendoci che, comunque, aveva incontrato anche Miss Vyfhuis, fuori dallo spaccio di rum di Arjune, e aveva persino acconsentito a pronunciare alcune parole al microfono. Non somigliava per niente alla sua signora farfalla; era piccola, col muso da topo e si vedeva bene che non avrebbe mai potuto volare. E poi, il suo registratore era grosso il doppio della scatolina nera che portava la sua signora… Facemmo spallucce, nessuno poteva demolire le preziose fantasie dello zio.
Una notte di alcuni mesi dopo, la nonna morì nel sonno. La famiglia non fu sopraffatta dal dolore; l’anziana signora aveva ottantanove anni e, sebbene la sua morte fosse inaspettata, tutti dissero che era un bene che non fosse stata preceduta da una malattia lunga e dolorosa. «Se avesse potuto, avrebbe scelto di andarsene in quel modo», disse Mami. Zio Umberto sembrava il più colpito dalla morte della nonna; non tanto affranto, quanto disorientato. Era come se quell’evento lo avesse colto in un momento inopportuno e per giorni vagò per la casa o per la strada borbottando con aria distratta. Zio Umberto avrebbe dovuto diventare il capofamiglia, e suppongo lo fosse, in un certo senso, ma abdicò in favore di zia Teresa, sua moglie, che assunse l’onere di prendere le decisioni importanti e di dare ordini. Le ciabatte di Umberto portarono sempre più spesso il loro occupante sul sentiero sopra al fiume e non solo di sera, ma anche la mattina presto e talvolta anche sul mezzo del giorno. Nessuno di noi vide, oltre a lui, la donna farfalla – nessun altro, a dirla tutta – camminare al suo fianco, anche se a volte sembrava gesticolare a una compagna invisibile. Generalmente si limitava a passeggiare. Si aggirava per il sentiero che costeggiava il fiume come l’olandese volante e tutti iniziammo a preoccuparci per lui.
Una sera, non molto tempo dopo, zio Umberto rincasò scarmigliato e sconvolto, con uno sguardo da folle.
«Sta per partire», disse. «Dice che è tempo di andare e che vuole portarmi con sé.»
«Portarti dove?» sobbalzò zia Teresa. «Ma guardati, Umberto, guarda come ti ha ridotto quella creatura immaginaria.»
«Te l’ho detto», supplicò Umberto, «non è immaginaria, l’ho vista davvero, lo giuro su Dio, anche se nessuno riesce a vederla. Ora sembra che voglia andarsene, e io devo andare con lei, o a limite raggiungerla dopo.»
«Dille che la raggiungerai, Umberto», disse Papi. «Sai che un marito o una moglie che si trasferisce in America di solito manda a chiamare il coniuge e i figli solo dopo. Dille di mandarti a chiamare quando si sarà sistemata. Non c’è bisogno che ti tuffi dalla roccia con lei.»
Ero sicuro che Papi stesse scherzando e ci furono delle risatine nervose nella stanza, ma inaspettatamente Umberto pensò che fosse un’idea eccellente. Il suo viso si liberò dal cipiglio e disse soltanto: «Grazie, Ernesto, glielo dirò e vedrò cosa mi risponderà», e si ritirò in camera, seguito dalla moglie visibilmente imbarazzata.
Due giorni dopo Umberto ci riferì che la signora aveva approvato il piano; si erano detti addio sul fare del giorno ed aveva preso il volo dalla roccia dove gli era apparsa la prima volta, sprofondando nella foschia che aleggiava sul fiume. Umberto sembrava di buonumore e noi della famiglia tirammo un sospiro di sollievo collettivo. Nelle settimane immediatamente successive sembrava essere tornato quello di un tempo, a bere un bicchierino con gli amici allo spaccio di rum di Arjune, a scherzare con tutti noi e a parlare di sostituire il tetto settentrionale della casa che aveva iniziato di nuovo a perdere. Non parlava mai della donna farfalla.
Nel giro di appena sei settimane, però, zio Umberto morì. Una mattina annunciò che avrebbe fatto un giretto in città per ordinare dello zinco, calzò le sue famose ciabatte e scomparve giù per la strada. Appena alcuni minuti dopo (non ci eravamo ancora incamminati verso la scuola) sentimmo delle grida da fuori e ci affacciammo in strada per vedere Imtiaz, Mr. Wardle dell’emporio e persino il vecchio Lall in testa a una folla di gente che risaliva la collina, agitando le braccia e urlando. L’unica parola che riuscimmo a distinguere tra gli schiamazzi fu ‘Umberto’.
Sembra che lo zio si fosse fermato ai margini della città per chiacchierare con un gruppetto di amici quando all’improvviso, alzando lo sguardo, aveva gridato: «Oddio! Bambino, attento!» e si era lanciato proprio sulla traiettoria di uno dei camion della cava che scendeva la collina a rotta di collo. Morì dove era atterrato in seguito all’impatto, la cassa toracica e un braccio spappolati e un taglio sul viso sopra all’occhio sinistro. Aveva ancora le ciabatte ai piedi. Non c’era nessun bambino – né altri – vicino al camion.
Be’, vi potete immaginare cosa disse la gente: la donna farfalla gli era apparsa e lo aveva condotto alla morte, proprio quando pensavamo che si fosse liberato di lei. La famiglia era devastata. Diversamente da quello della nonna, il funerale di zio Umberto fu un’occasione di grande tristezza e dolore, non ultimo perché vedemmo per la prima volta i piedi di Umberto in un paio di scarpe nere lucidissime. Le scarpe erano enormi, ma secondo noi non grandi abbastanza per contenere i piedi di zio Umberto. Il pensiero che gli addetti alle pompe funebri gli avessero mutilato i piedi per infilarli in quelle scarpe era insopportabile. Piangemmo tutti e quasi nessuno guardò il viso di Umberto, tutti gli occhi erano puntati sulla scena straordinaria e inquietante all’altro capo della bara. A casa, dopo la sepoltura, ce la prendemmo con la povera zia Teresa: come aveva potuto permettere che i becchini amputassero i piedi dello zio? Mio cugino Lennie, il suo preferito, singhiozzando disse che nemmeno Dio avrebbe riconosciuto zio Umberto con quelle scarpe.
«Avresti dovuto seppellirlo con le sue ciabatte; erano il suo marchio di fabbrica.»
«Marchio di fabbrica, sì», sbottò zia Teresa, gli occhi lucidi, «e lo hanno reso lo zimbello del paese, tutti ridevano e lo prendevano in giro per i suoi grossi piedi. Volevo che nella morte avesse la dignità che nella vita non gli è mai stata concessa, con Ernesto, John, tu, Nickie e i bambini a fare battute cattive sui suoi piedi e quelle ciabatte. Dio solo sa quanto vi ha incoraggiato con le sue pagliacciate, è vero, ma mi ha sempre ferito vederlo mettersi in ridicolo…»
A quel punto mio fratello Patti apparve nella stanza con le ciabatte in mano, dicendo: «Sono fantastiche, semplicemente meravigliose – uniche al mondo – guardatele!» E le sollevò, le lacrime che gli rigavano le guance.
«Dammele subito!» gridò zia Teresa, infuriandosi. «È sotto terra da appena due ore e state già sbandierando quei cosi ridicoli per prendervi gioco di lui. Mostrate almeno un po’ di rispetto per i miei sentimenti.»
Quando strappò le ciabatte di mano a Patti non potei non notare con timore che avevano ancora la scolpitura degli pneumatici e sembravano appena usate. In un altro momento avrei potuto commentare: «Sembrano avere meno di cento chilometri» (ossia, se Papi non mi avesse bruciato la battuta), ma allora, con la zia fuori dai gangheri, rimanemmo tutti in silenzio e la guardammo scomparire in camera, le calzature incriminate strette al petto.

* * *

Potreste pensare che il racconto sia finito, ma in realtà ci sono alcune cose da aggiungere. Dovete ricordate che questa non è la storia di zio Umberto, ma delle sue ciabatte. Diversi mesi dopo, quando zia Teresa tornò da una visita da sua sorella a Trinidad e sembrava di buonumore, qualcuno – Lennie, forse – le chiese che fine avessero fatto le ciabatte dello zio. Si adombrò per un attimo, poi sorrise: «Ah, quei cosi… Non preoccuparti, non le ho bruciate, le ho solo sepolte in fondo al baule. Non penso di essere ancora pronta a rivederle», e la conversazione slittò su altri argomenti.
Un anno dopo circa, quando la casa era in subbuglio generale – perché finalmente Mr. Moses stava riparando il tetto marcio a nord, perché zia Lina (una delle sorelle di mio padre) era in visita dal New Jersey e perché mio cugino Lennie (appena diciannovenne!) ci aveva disonorato mettendo incinta Rima Valenzuela – una sera zia Teresa entrò in cucina e annunciò che le ciabatte di zio Umberto erano sparite. «Cosa intendi per ‘sparite’, zietta?», chiese Lennie. «Ricordi? Ci avevi detto di averle messe in fondo al baule?»
«Sì», rispose zia Teresa, «in questa grande busta di plastica azzurra; ma quando le ho cercate per mostrarle a Lina, ho trovato il sacchetto vuoto. Guardate, si vedono ancora le impronte della scolpitura sulla plastica che è rimasta schiacciata per tanto tempo dal peso del contenuto del baule.» E sollevò la busta per farci vedere.
«Ma è impossibile che siano sparite», insisté Lennie.
Zia Teresa gli lanciò un’occhiata: «Come era impossibile che Rima Valenzuela rimanesse incinta, eh? Sei così fiero del tuo miracolo da ammettere di esserne responsabile; per quel che so, potresti essere colpevole anche di questo.»
«Andiamo, zietta», la supplicai, «non ricominciare a dargli addosso.» Mi sentivo dispiaciuto per Lennie che aveva ricevuto aspre critiche dalle donne della famiglia (ed era diventato una specie di eroe segreto di uomini e ragazzi!).
«D’accordo», disse Teresa. «Guardate, non so chi abbia preso le ciabatte. Avrei sospettato di uno di voi, ma chiudo sempre a chiave il baule, come sapete, e mi porto dietro la chiave; in questo serraglio domestico è l’unico modo per avere un po’ d’intimità e per dire di avere le mie cose. La scomparsa delle ciabatte è un vero mistero, ma potete andare a cercarvele se volete.» E ci lanciò il mazzo di chiavi, scrollando la testa. Cercammo davvero – nel baule, nell’armadio, nella cassettiera, sotto il letto, dappertutto – ma delle ciabatte non c’era traccia. Era un mistero bello e buono.
Alla fine le ciabatte divennero un ricordo sbiadito per gran parte della famiglia. La vita andò avanti; noi bambini continuammo a ‘crescere come l’erbaccia’, come diceva sempre zia Monica. Durante i mesi di scuola andai a stare in città coi miei cugini per finire le superiori e la mia vita cambiò, fino a che di zio Umberto e delle sue ciabatte non rimasero che ricordi, sfocati ed evanescenti.
Dopo lo scritto della maturità – pochi giorni fa – sono tornato a casa per passare del tempo con la mia famiglia e prepararmi a ripartire tra qualche mese perché ho già ricevuto un’ammissione provvisoria presso l’Università di Toronto. Il giorno dopo il mio ritorno, a metà mattinata circa, zia Teresa è corsa in casa in stato di shock; tra le mani aveva le ciabatte di zio Umberto. È sua abitudine passeggiare lungo il sentiero sopra il fiume – forse in memoria del marito – come lo zio negli anni precedenti la sua morte, ma quella mattina, passando accanto alla grande roccia sul precipizio a Mora Point, sul sentiero aveva visto, proprio alla base del masso, le ciabatte di zio Umberto. Erano poste in modo ordinato, una accanto all’altra come se qualcuno se le fosse tolte per salire sulla roccia. Non c’era anima viva. Zia Teresa era quasi svenuta. Tutti noi eravamo altrettanto turbati nel vedere di nuovo quelle ciabatte, e vi lascio immaginare le bizzarre congetture su come fossero finite sul sentiero quel giorno.
Ma la cosa più strana era che le ciabatte, senza dubbio le stesse dello zio Umberto (le iniziali incise erano ancora in parte visibili), la profondità della suola era dimezzata rispetto a quanto misurava alla morte dello zio; tra collo e punta del piede la scolpitura era completamente consumata e la gomma era nera e lucida. In due anni e mezzo qualcuno – o qualcosa – aveva fatto fare diecimila chilometri alle vecchie Firestone di zio Umberto!
L’indomani sono salito quassù, nella stanza-torre dei libri, e ho iniziato a scrivere questa storia.

1 Chlorocardium rodiei, albero sempreverde tipico della Guyana [N.d.T.].

Traduzione di Velia Februari

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Anno 4, Numero 19
March 2008

 

 

 

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