El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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la mucca milka

bessora

Nel cortile della mia capanna giace un Boeing 747. Che sorpresa per me che stavo andando a dar da mangiare alle capre. Deve essere caduto nella notte, nel bel mezzo delle galline addormentate. Un crash silenzioso, per non disturbare i miei galli–sveglia. Immaginatevi dei galli che non cantano più per annunciare lo spuntare del giorno ma per predire la caduta degli aerei.
Un Boeing Air Afrique.
E’ precipitato così dolcemente che si è ammaccato appena.
Prudente e circospetta, giro intorno all’aeromobile. Quattro giri dopo, chiamo le mie ballerine che si stanno ancora esercitando in palestra, nello scantinato della nostra bicocca: stanno preparando la coreografia del prossimo spettacolo. Armate di tutù rosa e lilla, carta vetrata, pinze, pittura dorata e sgabelli, andiamo all’assalto. La porta dell’aereoplano si apre senza problemi. Dentro nessuno. L’aereo è arredato come la suite di un hotel a tredici stelle: tavolo da biliardo, piscina, frigo a due ante e velluto rosso dal pavimento al soffitto. C’è perfino una palestra piena di specchi e materassi arancioni: ci faremo le prove di balletto.
Tre ballerine in tutù lilla si offrono di ripulire il logo: lo grattano con la carta vetrata e, a poco a poco, Air Afrique scompare. Due ballerine in tutù rosa poi dipingono cerchi dorati al posto del defunto logo. Presto il nuovo nome della nostra compagnia aerea risplende alla luce del sol levante: Lili’s Girls Airways. L’opera di riverniciatura è completata da un colpo di phon. Babyliss. 1600 Watt.
Imbarco immediato.
Le mie ballerine rosa e lilla si precipitano nella piscina azzurra dove galleggiano delle arance mezze sbucciate. Raggiungo il posto di pilotaggio, perché sono io il comandante di bordo. Un casco di banane plantain, saldamente assicurato al sedile, mi fa da copilota.
Direzione Yaoundé.
Giro una vecchia chiave inglese nella serratura del mio aereo e il motore si accende. Parto, schianto una gallina, schianto due galline, risparmio un gallo ed ecco che prendo il volo mentre il sole, che si è appena levato, tramonta già perché soffre d’ipersonnia. Nella piscina le Girls fanno scoppiare i tappi di champagne urlando che sono davvero grande. Sì, sono grande!
Le ragazze finiscono di sbucciare le arance. Il copilota mi segnala la presenza di una capra, aggrappata al carrello.
Il sole, appena tramontato, già rinasce perché soffre d’insonnia.
Atterro. La capra pure. Ma ho sbagliato rotta: il casco di banane mi ha indotto in errore nel piano di volo. Non siamo a Yaoundé; sto guidando su un’autostrada, corsia sinistra. Nevica: abbiamo raggiunto un emisfero a nord dell’equatore.
Accidenti.
Accipicchia.
Accidentaccio.
Porcheria d’un copilota pagliaccio.
Poco dopo un cartello mi annuncia che siamo a soli 57 kilometri da Ginevra. Poco dopo ancora, una BMW nera mi segnala che sto guidando in senso contrario. Pochi minuti ancora e incontro una coccinella portafortuna che con un lampeggio amichevole m’invita ad accostare.
Sterzo, controsterzo, perdo una ruota, perdo due ruote, ma non riesco a portarmi sul lato giusto della carreggiata.
Senza ruote, ormai guido sulla pancia, aderente all’asfalto. Il mio aereo si scortica e sprigiona un’immensa nuvola di fumo e scintille.
Sembra un fuoco d’artificio.
Continuo, schianto una Mercedes, schianto due Mercedes, risparmio una Ferrari e intanto il sole conclude la sua insonnia e se ne torna a letto. In piscina, le Girls giocano a biliardo urlando che sono davvero grande, ma che non hanno più arance da sbucciare. Gli mando delle banane. Sì, sono grande!
Un cartello azzurro mi annuncia che la prossima uscita dell’autostrada sarà Nyon. Ci sono. Il mio aereo ferito lascia l’autostrada. Sanguina dalla pancia scorticata.
Per fortuna a un incrocio abbandonato incontro un infermiere che aspetta proprio me, nient’altro che me, non le banane. Una benda qui, un cerotto là, senza dimenticare il mercurocromo, e si riparte. Ma prima l’infermiere mi indica la strada per Yaoundé.
Come si arriva a Yaoundé?
Mi consiglia di passare per Zermatt.
Superate una mucca friburghese, una mucca valdese, una mucca Milka e siete arrivati. Tanto di cappello.
Nella piscina le banane urlano di dolore per la pelatura a pelle viva, senza anestesia, senza anelgesici, senza peridurale. Le mie ballerine decantano le virtù della pelatura all’antica e i rischi dell’anestesia, dell’analgesia e della peridurale.
Sto pascolando fra verdi praterie e mucche fribughesi bianche e nere. C’è persino una mucca valdese bianca e marrone. E anche una mucca Milka bianca e viola. Schianto uno chalet, schianto due chalet, risparmio un hotel e, finalmente, ecco Yaoundé.
Scendono tutti: io, le mie girls, la piscina, il biliardo e il frigo a due ante. Le bucce di banana galleggiano sulla piscina insanguinata di succo d’arancia. Incontriamo un contadino che tosa un ovino. Si unisce a noi perché ha sempre sognato di diventare una ballerina di cabaret. Porta con sé del vino bianco, per farci la fonduta cinese, e la lana Merinos della sua pecora bianca.
Sul pendio di una collinetta incontriamo Mamywatta: la sirena sta mungendo una mucca in una terra di nessuno. Le proponiamo di unirsi a noi perché in effetti siamo completamente privi di pesce e abbiamo bisogno di proteine per un’alimentazione equilibrata. La donna–pesce rifiuta l’invito: tanto tempo fa si era prestata a un déjeuner sur l’herbe e, sinceramente, non se la sente di rifarlo.
Nella vita ci sono esperienze da non ripetere, dice.
Cerco di convincerla.
Lei resiste.
Cerco di convincerla.
Alla fine lascia il latte alle mammelle della mucca e la mucca nella terra di nessuno perché, in fondo, ha sempre sognato di nutrire delle ballerine.
Siamo arrivati a Kribi.
Incontriamo un pazzo stralucido ma invisibile. Sta pescando un gamberetto e fuma due o tre pipe. Ci fermiamo a guardarlo.
Cos’avete da guardarmi? Ci chiede.
Gli rispondiamo che rimaniamo lì tutti quanti. Sì, che gli piaccia o no, rimaniamo lì per guardarlo. Ci Resteremo quanto ci pare. Lui ribatte che non ne abbiamo il diritto. In effetti, non ne abbiamo il diritto finché siamo senza visto, né permesso di soggiorno per venire in quel modo a guardarlo pescare il suo gamberetto e fumare le sue due o tre pipe. Gli diciamo che è vero, non abbiamo il permesso di soggiorno, ma, che gli piaccia o no, ci fermiamo lì e se non è d’accordo faremo anche lo sciopero della fame. Così potrà tenere il gamberetto lì tutto per sé.
Lo guardiamo.
Lo guardiamo.
Ci supplica di andare via.
Diciamo va bene ma solo se diventa clandestino e nomade insieme a noi. Abbiamo bisogno di un pazzo stralucido e invisibile per allargare i ranghi della nostra compagnia di balletto. Ci risponde che gli piacerebbe molto perché in realtà ha sempre sognato di fare il ballerino, ma non sa niente del Ndombolo(1) e dell’entre–chat. E poi insiste che lui non è una donna. Che importanza ha, gli rispondiamo, gli uomini sono benaccetti. Ma se ci tiene veramente, possiamo liberarlo dei testicoli e sostituirli con le ovaie. Dice che ci penserà sù. Abbandona il gamberetto, tiene con sé le due o tre pipe e si unisce a noi.
Andiamo avanti, avanti e ancora avanti.
Partimmo in 8 ma, grazie a un sollecito rinforzo, ci ritrovammo a Port–Gentil in 500. Davanti alla chiesa di Saint Louis vediamo, seduti su una panchina, due uomini dai piedi nudi, uno dei quali torto. Ci invitano a stare un po’ con loro, scusandosi di essere completamente scalzi e di avere un piede torto su quattro. Li scusiamo, tanto più che possiamo capirli: Mamiwatta non ha i piedi, il Contadino ha tolto gli stivali, il Pazzo porta sandali di poco prezzo e io e le mie ballerine sfoggiamo scarpette rosa e lilla. Répéto. Misura 38.
I due uomini dai quattro piedi, uno dei quali torto, ci raccontano come hanno fatto a evadere da un ospedale psichiatrico che in realtà non esiste. Entro le mura di questa clinica immaginaria, facevano i calzolai; ma a furia di confezionare scarpette, pantofole, espadrillas e altre babbucce, alla fine non sopportavano più le scarpe. Hanno deciso di lasciare i quattro piedi scoperti, perfino il piede torto, e di vagare per i corridoi del manicomio senza scarpe.
Un po’ come il vostro biliardo e il vostro frigo, fanno notare.
Un giorno decisero di evadere dal manicomio. Rubarono delle babbucce a sonagli nella calzoleria e scapparono sperando di passare inosservati perché indossavano le scarpe. Dodici chilometri più altrettante bolle dopo, lasciarono le babbucce perché gli facevano male i piedi. Proseguirono senza scarpe. L’asfalto bruciava la pianta dei piedi e ogni tanto qualche goccia di catrame fuso gli mangiava le caviglie. Camminarono fino alla chiesa di Saint Louis dove, da allora, pregano il Signore di mandargli delle scarpe. Invece Dio gli ha mandato 500 ballerine.
Venite con noi e saremo 502 in ballo, propongo.
I due aderiscono alla nostra formazione perché anche loro hanno sempre sognato di fare i ballerini di cabaret.
Ripartiamo per Yaoundé, dove ci aspetta il nostro aereo. D’un tratto, così come ci è apparso, assistiamo in diretta alla sua misteriosa scomparsa: l’ovino del contadino e la mucca di Mamiwatta prendono il comando dell’aeromobile e il Boeing 747 decolla, direzione il magma al centro della Terra.
Come se non facesse già abbastanza caldo.

trad. di Cristina Schiavone

(1)“Ballo moderno d’origine congolese attualmente molto diffuso in Africa centrale e occidentale” . [N.d.T.]

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Anno 3, Numero 13
September 2006

 

 

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