“Lei non è del castello, lei non è del
paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è
qualcosa, sventuratamente, è un
forestiero, uno che è sempre di troppo e
sempre tra i piedi!”
Franz Kafka, Il Castello
“No, no, meglio tacere. Le parole sono dei rampicanti che avvolgono una persona, la possono soffocare”. Simili intuizioni emergono negli interstizi, nelle pieghe che la narrazione di Christiana de Caldas Brito lascia penetrare naturalmente, senza forzare il senso, nella sua scrittura, come brevi spiragli di silenzio che rivelano la presenza-assenza di un’alterità indicibile, di un “altro della parola” che non può essere nominato, ma solo intuito, lasciato filtrare come una sospensione, un “nonsense” perturbante, e spesso terrificante, nel ritmo del racconto. Certo, la parola può soffocare, definire, arrestare il continuo scorrere della vita, la perenne metamorfosi di ogni identità che entra in contatto con l’altro da sé. I migliori racconti di Christiana sono invece folgorazioni, lampi che illuminano brevemente, non per definire e analizzare una realtà, ma, al contrario, per far vacillare ogni costruzione apparentemente stabile del senso, per dare corpo alle ombre che si celano nell’ambiguità di ogni esistenza. I suoi personaggi si collocano ai margini, socialmente e psicologicamente, al tempo stesso “qui e là”. I suoi racconti rincorrono individui soli e solitari, in preda a nevrosi e inconsapevoli del loro dolore e delle potenzialità di cambiamento racchiuse nelle loro emozioni soffocate, al confine tra la vita e la morte oppure transitanti in un mondo che non appartiene loro e al quale non appartengono, una “doppia assenza” che caratterizza anche l’esperienza dei migranti. Questa condizione ai margini, al confine di identità definite e stabili, si rivela pertanto un accesso ad un’intensità ulteriore dell’esistenza che, anche nel fallimento e nella precarietà estrema delle loro vite, permette loro di intuire e talvolta di varcare la soglia, il “limen” …
La scrittura di Christiana non soffoca, al contrario, accompagna, con una ricerca linguistica che è al tempo stesso interrogazione e de-costruzione della parola stessa, il destino dei suoi personaggi che emergono netti attraverso un linguaggio denso e delicato al tempo stesso. Nella postfazione alla sua prima, e bellissima, raccolta intitolata Amanda, Olinda, Azzurra e le altre [Roma, Lilith Edizioni, 1998; ripubblicato da Oèdipus, Roma, 2004], Christiana descrive la genesi dei suoi personaggi, prevalentemente femminili in questi primi racconti, come l’emergere, attraverso la sua voce, di altre voci inascoltate e subalterne che rivendicano uno spazio di parola che non è loro concesso nella loro esistenza quotidiana. L’articolarsi di queste voci in una forma letteraria specifica, quella del “racconto breve”, merita una serie di considerazioni che ci permettono di posizionare la produzione letteraria di Christiana de Caldas Brito lungo l’asse di sviluppo delle formidabili potenzialità espresse, in questi anni, da quella che viene ormai comunemente definita la Letteratura Italiana della Migrazione (definizione proposta con successo da Armando Gnisci). Cercando di oltrepassare qualsiasi definizione di un “campo letterario”, la quale rischia sempre di tendere verso un’implicita canonizzazione “ordinatrice” che risulterebbe inadeguata nei confronti delle potenzialità di “distanziamento ironico” e di “rottura” espresse dalle opere migliori degli “scrittori migranti”, vorremmo cercare invece di concentrarci su alcune qualità specifiche della scrittura di quest’autrice che, come dimostra la sua seconda raccolta intitolata Qui e là [Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2004], tendono ad aprirsi a livello tematico ben oltre il terreno esperienziale della migrazione. Attraverso un’evidente maturazione delle qualità stilistiche e retoriche della prosa e una sempre maggiore padronanza degli strumenti narrativi, i suoi racconti rivelano le straordinarie potenzialità di una letteratura che porta con sé un vero e proprio “soffio rigenerante” nei confronti di un panorama, quello italiano, che appare sempre più desolatamente cosparso di forme stanche e manierate. Queste parole di Iain Chambers, uno dei maggiori esponenti dei “postcolonial studies” (un campo di studi che ha rivolto particolare attenzione alle soggettività migranti e subalterne ed alle loro forme di rappresentazione) esprimono compiutamente le potenzialità della scrittura come atto di migrazione e di esodo, di disorientamento, di ibridazione e di spaesamento del soggetto, che vengono riattivate in particolar modo dalle “letterature migranti”: “La scrittura apre uno spazio che invita al movimento, alla migrazione, al viaggio. Implica mettere una certa distanza tra noi e i contesti che definiscono la nostra identità. Scrivere, pertanto, sebbene a prima vista sia un gesto imperialista in quanto si propone di stabilire un percorso, una traiettoria, un territorio e un dominio di percezione, potere e conoscenza, per quanto limitato e transitorio, può anche implicare il rifiuto della dominazione ed essere invocato come traccia transitoria, come gesto di offerta: un dono, enigmatico presente di una lingua che tenta di rivelare un’apertura in noi stessi e nel mondo che abitiamo. [...] Cerca di estrarre dai limiti del suo movimento, dall’esperienza del transito, un surplus, un eccesso che conduce a una possibilità imprevista e ignota” [Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Roma, Meltemi, 2003]. Queste parole potrebbero essere ripetute a commento di un qualsiasi racconto di Christiana, in cui il linguaggio ed il gesto della scrittura si presentano proprio come un enigmatico dono che è ricerca di senso, un senso che non si da, ma che deve essere costruito e faticosamente ricercato tra le pieghe dell’esistenza e le “tracce transitorie” della parola.
In un breve testo intitolato proprio La scrittura e il senso, Christiana esprime con un’immagine molto chiara questo concetto: “Lo scrittore migrante sarà quello che abbandonerà il proprio luogo di origine, come gli uccelli, per vivere altrove. Con due grandi differenze: gli uccelli ritornano al posto da dove hanno migrato; raramente, gli esseri umani. Gli uccelli mantengono le proprie ali nel paese di arrivo, ma gli scrittori migranti devono acquisire nuove ali. E le ali degli scrittori migranti sono le loro parole, sono la loro lingua. La lingua dell'infanzia è la lingua madre; la lingua acquisita dopo l'arrivo sarà sempre una lingua matrigna. Possiamo andare d'accordo con la nostra matrigna, ma continueremo a dialogare anche con la madre che portiamo dentro.
Scrivere migrante sarà prima di tutto familiarizzarsi con le nuove ali. Con la scrittura, il migrante darà un senso alla sua partenza e un senso al suo arrivo. La scrittura e il senso. O sarebbe più giusto dire: la scrittura è il senso?” [http://www.comune.fe.it/vocidalsilenzio/attichristiana.htm].
Abbiamo detto di come Christiana scelga la forma del racconto breve, che normalmente viene letta come la forma narrativa più consona al principiante o all’apprendista della narrativa, oppure di chi, come si suppone banalmente per uno scrittore migrante e non di madrelingua italiana, faccia ancora fatica a maneggiarla correttamente. Non interessandoci affrontare qui la questione, che risulta senz’altro viziata da un pregiudizio di partenza, ci basta sottolineare che, nel caso della nostra scrittrice brasiliana-italiana (o viceversa?), la scelta della forma del “racconto breve” è perfettamente consona alle intenzioni, alle modalità e ai toni della sua arte narrativa. Alcuni racconti, inoltre, specialmente nella seconda raccolta, non faticano a trovare una dimensione temporale più estesa ed un intreccio dinamico di eventi e personaggi. E’ il caso di Lavandaie in quattro tempi e del bellissimo Tre silenzi. I racconti pubblicati in queste due raccolte presentano una serie di caratteristiche ricorrenti che, senza alcuna pretesa di esaustività, cercheremo di elencare per rendere conto, almeno in parte, dell’originalità e della forza di questa scrittura.
Innanzitutto, Christiana è una scrittrice della solitudine. Questo tema ricorre in quasi tutti i racconti, vero e proprio leitmotiv del suo discorso letterario, che rimanda ad altri precedenti nella letteratura della migrazione, come Le pareti della solitudine di Tahar Ben Jelloun [Torino, Einaudi, 1990]. Senz’altro il suo mestiere di psicoterapeuta la porta ad un quotidiano contatto con le pieghe più nascoste del dolore umano, che l’autrice sa trasportare abilmente e delicatamente nei suoi personaggi, senza peraltro eccedere nello psicologismo. Christiana è capace di rappresentare il malessere esistenziale che imprigiona i suoi personaggi come possibilità creativa di cambiamento e, al di là degli esiti talvolta tragici, come riflesso e conseguenza di un malessere diffuso attorno a loro, dentro la società, e causato dai suoi meccanismi implacabili di esclusione. Un racconto in questo senso esemplare è “Fausta”, nel quale risulta evidente un meccanismo narrativo anch’esso ricorrente e che l’autrice sa utilizzare abilmente, tanto da ricordarci, in certi passaggi, alcuni racconti di Edgard Allan Poe, come Berenice: è il meccanismo della “suspence” e degli “indizi” narrativi legati alla rappresentazione del fantastico, del grottesco, dell’onirico e del misterioso. Come ha giustamente sottolineato Maria Cristina Maceri in un saggio posto in appendice alla raccolta Qui e là, la dimensione inquietante del quotidiano che ritroviamo in racconti come L’orologio e In fondo all’occhio rappresenta quel “passaggio di soglia che è uno degli elementi specifici del modo narrativo fantastico” e che viene usato dall’autrice per rivelare gli aspetti più nascosti ed ambigui della realtà. E’ con composto terrore che scopriamo che Fausta, personaggio dell’omonimo racconto, uccide la suora per difendere l’unica presenza che le permette di allontanare “il sibilo della solitudine”: uno scarafaggio. Ma la rivelazione finale, che molto spesso non è data, soprattutto nei racconti dell’ultima raccolta, illumina al tempo stesso tanto il dolore profondo del personaggio, che parla in prima persona, quanto il meccanismo di oppressione sottile dell’istituzione che la intrappola e che ha generato la sua schizofrenia.
Ma il mistero rappresenta anche un’importante occasione di cambiamento e di “trasformazione interculturale”. L’elemento dello “shock” investe, in questo caso, tanto il personaggio quanto il lettore, spinto ad identificarsi grazie all’assunzione da parte del narratore di un punto di vista “intradiegetico” e potremmo aggiungere che la “brevitas” che caratterizza questa scrittura è inversamente proporzionale all’intensità dell’impatto con il lettore, alla traccia e agli interrogativi che lascia in lui. Pensiamo ad esempio al bellissimo racconto La francescata, ambientato, non a caso, a Rio de Janeiro. Lo spaesamento e l’angoscia sono qui dovute al ritorno, all’estraneità di una città così diversa da Roma (gli elementi autobiografici sono evidenti) e che, proprio per questo, offre al personaggio, come una sorpresa o un dono inaspettato, un’occasione di scoperta e di cambiamento. Alla fine la paura e il senso del dovere hanno la meglio sulla curiosità e il personaggio, insieme al lettore, non sapranno mai che cos’è una “francescata”: “per me, invece, caro tassista, vuol dire molto di più, vuol dire che continuo a essere la ragazza che non sgarra dal dovere, vuol dire che non ho il coraggio – lo avrò mai? – di affrontare l’ignoto”. Alcuni racconti di Christiana sviluppano proprio quella “poetica del transito e della transitorietà”, identificata da Franca Sinopoli come uno dei tratti fondamentali delle “letterature migranti”, ossia “un progetto […] di vita e di letteratura molto più elaborato, che va articolato attraverso l'analisi dei testi che si presentano come un laboratorio di trasformazione dell'identità monoculturale in una identità interculturale, la quale traduce e mette in gioco due o più culture diverse tra loro”. Si tratta di una “poetica inquirente”, che indaga e decostruisce i meccanismi dell’identità mettendone a nudo le fratture, le contaminazioni, i processi di cambiamento. Un racconto esemplare, in questo senso, è Il pinga pinga, anch’esso ambientato in Brasile, dove una turista occidentale, una “gringa”, decide di intraprendere un viaggio nell’interno del paese, verso Iracema, con un autobus di linea animato da una variegata e rumorosa umanità, il “pinga pinga”. Quest’avventura si rivela un drammatico e sconvolgente contatto con la realtà più viva e, per lei insopportabile nella sua estrema ed incomprensibile diversità, del Nordeste, finché, giunta finalmente a destinazione, non trova le parole per descrivere un’esperienza che ha lasciato in lei un solco profondo: “Come spiegare? “Il pinga pinga, Irene” E spiegare cosa? “E’ stato il pinga pinga”.
L’ironia e l’invenzione fantastica diventano un atto di vera e propria “sovversione discorsiva” dei meccanismi sociali di coercizione e di esclusione in un racconto come Io, polpastrello 5.423, in cui è lo stesso apparato burocratico-poliziesco che gestisce, attraverso i suoi funzionari, le forme di controllo e di repressione dei movimenti migratori attuate dalla Legge Bossi-Fini, ad essere vittima della sua stessa incapacità ed impossibilità di mettere in atto questi meccanismi: un’insurrezione di polpastrelli, momentaneamente staccatisi dai corpi dei loro padroni, provoca il caos in un ufficio della questura e, addirittura, un principio di presa di coscienza dell’assurdità delle loro mansioni da parte degli stessi funzionari. Il tutto si risolve in un momentaneo ritorno all’ordine che rivela, con toni sarcastici e grotteschi, il meccanismo implacabile di sfruttamento a cui sono connessi il controllo e la repressione, e, al tempo stesso, il ruolo indispensabile svolto dagli immigrati per far funzionare gli ingranaggi della società: “Eravamo davvero preoccupati per i nostri padroni senza polpastrelli. Cosa poteva essere successo all’Italia senza di loro nelle fonderie e nelle fabbriche, negli ospedali, nelle case di famiglia, negli uffici, dai benzinai, nei ristoranti, nella pulizia delle strade, nei mercati e negli alberghi? Il polpastrello 3.986, il mio connazionale, si affrettò: «Dai, corriamo, senza di noi, l’Italia si ferma!»”.
Un altro livello fondamentale per comprendere la sostanza della narrazione di Christiana è quello della lingua, o meglio, di quello che potremmo definire il “gioco creativo” della lingua, retto da un meccanismo a volte di ironia distanziatoria, a volte di profonda empatia. A questo livello si mostra forse il momento più profondo e sincero e si rivela pienamente il senso della sua scrittura. Lo afferma uno dei suoi personaggi più belli, Olinda, esprimendosi in un linguaggio ibrido che l’autrice ha definito “portuliano”: “Patria è il caldo che sento dentro quando qualcuno dimostra interesse per quello che io racconto. Non ho patria e sono sola quando gente non ha curiosità di migna vida”. Spesso i suoi personaggi sembrano nascere proprio da questo gioco con la lingua italiana, in cui si inseriscono il ritmo e la sensibilità fonetica della propria lingua madre, il brasiliano: “Alcuni dei miei personaggi”, afferma Christiana, “sono isolati anche linguisticamente. Parlano in “portuliano”, un miscuglio di portoghese e italiano. Il risultato è una voluta “sgrammaticazione”della lingua italiana che riflette la loro mente lusofonica. Come se nella loro anima il passato echeggiasse attraverso la lingua portoghese”. La freschezza e la creatività dei suoi giochi linguistici sarebbero ben difficili da ritrovare in uno scrittore di madrelingua italiana ed è senz’altro, quest’ultimo, uno dei maggiori apporti delle letterature della migrazione. Numerosi racconti nascono da pure suggestioni fonetiche, come Azzurra, Chi, Ali Alina Alice, Ià, la vecchia, dove proprio il gioco fonico-ritmico ci svela, con una modalità narrativa che è evidentemente legata all’oralità, il senso della storia:
Ahi, ahi, ahi,
vecchia Ià,
ahi, ahi, ahi,
vecchiaià.
Sicuramente Italo Calvino avrebbe apprezzato la “leggerezza” e la “rapidità” di questa scrittura che a volte pare “disfarsi”, prendere il volo, staccarsi dai rigidi legami del senso per giocare coi suoni e lasciare letteralmente scivolare i significanti alla ricerca di una “différance” che lasci intuire al lettore la possibilità di nuovi universi semantici. E’ il caso di Maroggia, sicuramente uno dei racconti più belli di questa raccolta. Già il nome della protagonista, come accade in altri casi, crea nel lettore un effetto perturbante evocando un mistero e un destino che forse, ma questo non accade sempre, verranno svelati lungo il racconto. Maroggia è una donna solitaria e silenziosa. Si siede in riva al “mare”, nelle notti di “pioggia”, sussurrando parole incomprensibili: “Marondamare, spazzoventolato, marnulla …”. Il loro suono evoca nel lettore un’ibridazione del senso, un mistero che cela una verità più profonda che nessun linguaggio può descrivere. Christiana gioca spesso con le parole, ma non lo fa per puro estetismo o manierismo. E’ l’esempio del rapporto privilegiato che uno scrittore migrante può avere con una lingua che non è la sua lingua madre e che mantiene pertanto un’”opacità” irriducibile e al tempo stesso la potenzialità della “contaminazione” con altri universi semantici. La protagonista di questo racconto è una metafora vivente. Il suo inarrestabile trasformarsi, metamorfizzarsi con l’alterità assoluta e insondabile della vastità marina (come non pensare ad Ovidio?) rivela l’impulso profondo che è alla base di questa scrittura. Il suo dolore è il suo destino, dai suoi occhi sgorga acqua di mare, il suo ventre partorisce “una fontana di acqua salata”. La metamorfosi della parola segue con incredibile spontaneità e creatività le metamorfosi della protagonista: neologismi (se così vogliamo definirli, forse piuttosto dei “transiti”, metafore momentanee che non ambiscono per nulla ad essere fissate nella struttura della lingua) come “lacrimare, unghiglie, bocchiglia, pioggiarono, massacqua, verdalghe, marinverno, maralgheconchiglioggia” rappresentano l’inesorabile partenza-ritorno della protagonista verso l’infinità dell’indistinto. La loro “ibridità” è la ricchezza di un universo altro che la scrittrice lascia intuire al lettore senza mai definirlo, senza volerlo a tutti i costi fissare sulla pagina, ma al contrario rendendone il lettore partecipe sin nella sostanza, nel ritmo, nella musicalità della parola. Maroggia non parla. Resta ai margini, in silenzio, racchiusa dagli altri in un rassicurante (per loro) : “Salve, Maroggia, come va?”. Ma la sua presenza silenziosa è perturbante e spezza col suo solo esserci l’autorità condivisa e indiscussa del quotidiano. Maroggia è quindi una metafora dell’altro, di ciò che è fuori dall’ordine e varca i rassicuranti confini dell’identità e del senso comune; così come fa la scrittura, quando non è vuota ripetizione di linguaggi e codici dominanti; così come fa Christiana e, con lei, altri scrittori della migrazione che, pur nella loro diversità irriducibile ad un’unica categoria, quella appunto dei “migrant writers,” condividono la provenienza da un “altrove” che permette loro di creare dei varchi “clandestini” attraverso cui la nostra (???) lingua e letteratura si arricchiscono e si aprono alla contaminazione con l’alterità.