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una scrittura che vive, intervista a buthaina al nasiri

alessandra di maio

La scrittrice irachena Buthaina Al Nasiri, autrice del volume Notte finale. Racconti tristi e felici (Baldini Castoldi Dalai 2003), ha partecipato nel mese di settembre alla nona edizione del Festivaletteratura di Mantova. Nella magnifica cornice di Campo Canoa, ha conversato insieme alla connazionale Inaam Kackachi, curatrice dell’antologia Parole di donne irachene (Baldini & Castoldi 2003), in cui è incluso il racconto di Al Nasiri Il ritorno del prigioniero; e con alcune esponenti della Società Italiana delle Letterate (SIL), presenti con la pubblicazione collettanea Leggere e scrivere per cambiare il mondo. Donne, letteratura e politica (Tufani 2005), co-curata dal Centro Documentazione Donna di Ferrara. L’incontro, organizzato e moderato da Monica Farnetti della SIL, aveva come tema il ruolo delle scrittrici e delle lettrici nella società contemporanea. Alessandra Di Maio ha intervistato Buthaina Al Nasiri per El Ghibli.

Nel tuo racconto Il ritorno del prigioniero, pubblicato in italiano nell’antologia Parole di donne irachene, guerra, legami famigliari, ideali e senso d’abbandono si intrecciano in una storia con svolte impreviste e molteplici conclusioni, che rimane irrisolta. Leggendolo, non ho potuto fare a meno di pensare che la casa in cui avviene l’azione del racconto sia una metafora del Paese in cui si svolge. Il finale aperto, in particolare, mi ha fatto interrogare sul futuro prossimo dell’Iraq. Forse sto tirando la corda e leggo cose che invece non sono?

No, hai ragione. La casa in Il ritorno del prigioniero funge da metafora per l’intero Paese. Non che lo avessi chiaramente in mente mentre scrivevo il racconto. A volte succede che hai un’idea in testa, pensi a una storia in un certo modo, ma poi, nel mezzo della scrittura, la storia ha la meglio, dice la sua e detta la propria conclusione. Ecco come si spiegano in questo caso le sterzate, il finale aperto e l’assenza di risoluzione.
In questa storia, in particolare, volevo mostrare prima di tutto la condizione dei prigionieri della guerra Iran-Iraq. Forse quello che racconto vale per tutti i prigionieri di guerra, di qualsiasi parte del mondo. Ma nella fattispecie qui volevo evidenziare la situazione specifica di questa guerra. La guerra Iran-Iraq è cominciata nel 1981 ed è terminata nel 1988. Tuttavia, ancora oggi, nel 2005, ci sono prigionieri iracheni in Iran. In questo arco di tempo sono successe tante cose in Iraq: c’e’ stata la guerra del 1991; tredici anni di sanzioni da parte delle Nazioni Unite; e infine l’invasione condotta dagli Stati Uniti e la conseguente occupazione. Prova a immaginare un prigioniero che, dopo essere stato chiuso in un campo di concentramento iraniano per dieci o persino venti anni, ritorna a casa, in Iraq. Non ha idea di come adattarsi a tutti i cambiamenti avvenuti nel frattempo. Ritorna in un mondo al quale non appartiene.

Il sogno occupa un ruolo centrale in Il ritorno del prigioniero, manifestandosi in molteplici forme. Il sogno è incubo, visione, attesa, illusione, disincanto, desiderio, speranza e vergogna. Si tratta di argomenti centrali in tutta la tua produzione letteraria?

Adesso che me lo fai notare, sì, direi di sì, credo che la maggior parte dei miei racconti sviluppino questi temi. Ma sono sempre e comunque calati nelle asperità della realtà.

Oltre che in prosa, scrivi in altre forme? E che lingua, o quali lingue, utilizzi quando scrivi?

Qualcosa di particolare accomuna gli scrittori arabi. La maggior parte, se non tutti, cominciamo scrivendo poesia. Dopo, a poco a poco, scopriamo il mezzo di espressione che ci è più congeniale. In alcune fasi della mia vita ho scritto alcune poesie in inglese. Ma è stato un esperimento che non è durato a lungo. I racconti, invece, li ho scritti tutti in arabo.

Sono tutti ambientati in Iraq?

No, non tutti. Uno, per esempio, è ambientato in Inghilterra, almeno due nella Palestina occupata, e molti in Egitto, il Paese in cui vivo da alcuni anni.

Già, ormai da un certo numero di anni vivi al Cairo, dove tra l’altro hai fondato una casa editrice. Come è successo tutto questo? Ci racconti qualcosa di te e della tua arte?

Parlare di me e della mia arte mi risulta piuttosto difficile. Non so davvero come parlare di me. Forse parlano meglio di me i miei racconti. Alcuni tra quelli che personalmente considero tra i miei migliori sono raccolti in Notte Finale.
Però ti posso raccontare del mio progetto editoriale del Cairo. È cominciato nel 1998, agli inizi delle operazioni dell’embargo delle Nazioni Unite. Era mia abitudine andare a trovare i miei amici scrittori in Iraq ogni anno. Prima dell’embargo del 1990, l’Iraq era un minareto di pubblicazioni. I libri erano promossi e finanziati dallo Stato, e dunque si potevano acquistare a prezzi ragionevoli. Erano come il pane, a disposizioni di tutti. A Baghdad venivano a pubblicare le proprie opere scrittori da tutto il mondo arabo. E gli iracheni sono sempre stati ottimi lettori. In arabo esisteva un detto, ancora ben noto: “I libri si scrivono al Cairo, si pubblicano e Beirut e si leggono a Baghdad”. Risale al periodo in cui in Libano si pubblicava moltissimo, prima che l’Iraq diventasse il nuovo centro della scena editoriale araba.
In seguito, durante gli anni dell’embargo, è precipitato tutto. Secondo la decisione del Consiglio di Sicurezza, all’Iraq era concesso di importare soltanto cibo e medicine. Nient’altro. Persino la carta e le matite erano proibite. Era la sanzione peggiore della storia dell’umanità. Persino durante l’embargo del Sud Africa ai tempi del regime dell’apartheid, erano permessi i materiali per l’insegnamento. Ma non in Iraq. L’idea era di fare regredire il Paese all’età preistorica. Quali esseri umani possono vivere soltanto di cibo e medicine?
Durante quegli anni, le casi editrici irachene dovettero chiudere, perché mancavano la carta, l’inchiostro, i pezzi di ricambio delle stampanti e così via. Così, ogni volta che andavo a Baghdad, i miei amici mi consegnavano i loro manoscritti, chiedendomi di farli stampare dalle varie case editrici del Cairo, cosa che facevo regolarmente. Ne seguivo la stampa, se necessario li revisionavo, mi occupavo dell’aspetto commerciale e di tutto il resto, facendo in modo che alcune copie dei volumi infine pubblicati fossero mandate agli autori. Era un’impresa, perché la maggior parte delle case editrici al Cairo non riconoscevano i diritti d’autore. A un certo punto, mi sono chiesta se non facessi meglio a fondare una casa editrice. Quanto meno avrei potuto mandare i proventi agli autori, i quali, a causa del continuo deteriorarsi delle condizioni di vita imposte dall’embargo, avevano un disperato bisogno di supporto finanziario. Mi sono data anima e corpo a questa avventura editoriale, senza che avessi né esperienza nel settore né finanziamenti adeguati. Il mio lavoro era volontariato in senso stretto. Credevo che fosse un dovere per noi scrittori iracheni che vivevamo al di là dell’embargo servire i nostri amici scrittori che erano rimasti in Iraq.
Dal 1998 al 2003 sono riuscita a pubblicare sedici libri, tra cui due o tre romanzi, una collezione di opere teatrali, e alcune antologie di poesie e di racconti. Sono orgogliosa di avere aiutato almeno cinquanta scrittori e scrittrici a pubblicare le proprie opere e a essere riuscita a ricavarne anche degli utili.
Com’è che ci sono riuscita, non avendo alle spalle né esperienza né denaro? Volere è potere. A poco a poco mi sono fatta le ossa, ho acquisito l’esperienza necessaria, mentre i fondi sono iniziati ad arrivare prima sotto forma di donazioni da parte di alcuni amici egiziani e dopo anche da una fondazione europea.

Durante l’incontro di oggi hai dichiarato che la maggior parte dei protagonisti dei tuoi racconti sono uomini. Hai sottolineato che ciò che più ti sta a cuore è scrivere sull’universalità dell’essere umano, sia che si tratti di uomini o di donne. Hai concluso che se i tuoi lettori cercheranno storie di donne, non le troveranno. Cosa intendevi, con precisione? Te lo chiedo perché a me sembra che per esempio Il ritorno del prigioniero, incluso nell’antologia Parole di donne irachene di cui si discuteva, sia una storia tanto di un uomo quanto di una donna. Mi avventurerei al punto di dire che è, prima di tutto, una storia sulla relazione che lega un uomo e una donna – marito e moglie – e sugli effetti che la guerra esercita sul loro rapporto. O la mia è una interpretazione azzardata?

No, non è una interpretazione azzardata. Il ritorno del prigioniero è un racconto su come la guerra possa influenzare un legame tra un uomo e una donna. Tuttavia non è una storia di harem e donne oppresse. Ecco cosa intendo sottolineare, quando dico che i miei lettori non troveranno storie di donne nelle mie opere.
Il mondo occidentale ha una sorta di idea preconcetta su tutto quello che riguarda l’Oriente, specialmente sui Musulmani e sull’Oriente arabo in genere. Questa idea si è stabilita tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo, a opera degli orientalisti che venivano in visita e scrivevano dell’Islam, delle sue donne e così via. Persino i traduttori delle Mille e una notte ne sono stati artefici. Ci credi che persino oggi alcuni occidentali, pure colti, non sanno dove si trovi l’Iraq? Però se dici loro: “Baghdad? Le mille e una notte?!”, allora sanno di cosa parli e dicono con saccenteria, “Ah, certo, Baghdad!”
Con questa idea in mente, di solito chi traduce in occidente va alla ricerca di una letteratura araba che corrisponda ai pregiudizi sulle società arabe. Ecco perché la maggior parte dei romanzi e dei racconti contemporanei tradotti nelle varie lingue europee hanno come protagonista l’harem e come tema dominante l’oppressione delle donne. Conosco personalmente alcuni scrittori arabi che, desiderosi di essere tradotti, inseriscono deliberatamente nelle loro storie gli ingredienti giusti, cucinandoli a puntino, in modo tale da incontrare il gusto dei lettori europei. È un fatto ben noto nei circoli letterari arabi: scrivi una storia di harem, oppure una storia con cammelli, deserti e sceicchi – oltre che, ovviamente, con un harem! – e il giorno dopo sarà tradotta in sette lingue! Alla fine, il lettore occidentale non impara nulla di vero né di attendibile sulle società arabe moderne. Al contrario, è portato a ritenere vero ciò che invece non corrisponde ad alcun dato di fatto.

Un’altra cosa che sostenevi, con ironia ma anche con veemenza, è che le donne irachene sono sempre state libere e non hanno bisogno che venga qualcuno dall’esterno a ‘liberarle’. Tuttavia, hai fatto anche riferimento a come negli ultimi decenni si sia progressivamente ‘involuto’ il ruolo delle donne nella società irachena. La situazione attuale sembra essere molto diversa dai tempi in cui una donna veniva mandata a rappresentare l’Iraq alla neonata Società delle Nazioni. Come e perché è cambiata la situazione? Ci puoi raccontare qualcosa di più a riguardo? E come si riflette questo cambiamento nelle tue opere?

Ascolta. Sono nata nel 1947 nella città di Baghdad, dove sono cresciuta. Nel 1953 ho iniziato le scuole elementari e ho continuato a studiare senza interruzioni finché non mi sono laureata, nel 1967. Dopo la laurea, ho fatto domanda di lavoro. L’esame, cui concorrevano altri partecipanti, uomini e donne, era per un solo posto, e l’ho vinto. Avevo uno stipendio e opportunità di promozione e di raggiungere il livello dirigenziale pari a chiunque altro. In quegli anni ho conosciuto un uomo di cui mi sono innamorata, con cui siamo stati insieme a lungo e che poi ho sposato. All’inizio la mia famiglia non approvava il nostro matrimonio perché pensavano che tra noi ci fosse una forte incompatibilità di carattere, ma io ho persistito e alla fine l’ho avuta vinta. Anche da sposata, andavo e venivo dall’Europa da sola tutte le volte che volevo. Mio marito non mi diceva di no né tanto meno mi negava questo diritto. In seguito, in un periodo particolarmente difficile della mia vita, il nostro matrimonio non ha funzionato più, dunque insieme a mio marito siamo andati in tribunale e abbiamo divorziato consensualmente, senza alcun problema. Questa è la storia della mia vita. Ti dice niente? Dopo tutto, non sono che una donna normale, di una normalissima famiglia della media borghesia irachena. Mia madre, a sua volta una donna della media borghesia, è nata nel 1922, ha iniziato a frequentare la scuola nel 1928, alcuni anni dopo si è laureata e infine è diventata professoressa di matematica. Dovevano essere i primi anni Quaranta. E mia madre non era certo l’unica tra le sue coetanee ad avere seguito un iter di questo tipo. Ricordo che quando ero piccola venivano a trovarci amiche sue che facevano le insegnanti, i dottori, le presidi di scuola. Negli anni Cinquanta, gli anni a cui risalgono i miei primi ricordi, mia madre non indossava il velo né l’abaya, un indumento nazionale nero, morbido, a maniche lunghe, che copre la testa e arriva fino ai piedi. Nel 1958 ha comprato una macchina con la quale ci portava a scuola, una macchina che ha continuato a guidare fino in età avanzata – a dire il vero, l’ha venduta soltanto l’anno scorso. Mio padre, che è stato malato a lungo prima di morire, non aveva un lavoro fisso e mia madre è stata a lungo l’unica fonte di sostentamento per la nostra famiglia. Tutto questo ti dice niente sulle donne irachene? Le donne irachene erano liberate ben prima che nascesse il signor Bush. Adesso che lui ha deciso di ‘liberarle’, le donne irachene sono confinate a casa. Se ancora ce l’hanno una casa, considerando che durante le ultime offensive condotte dall’esercito americano nella zona ovest del Paese, 170.000 iracheni sono stati spinti nel deserto, mentre le loro case venivano distrutte o trasformate in avamposti per le truppe statunitensi. Per non dire delle migliaia di persone che sono rimaste senza tetto a causa delle offensive su Felluja dell’anno passato. Mentre l’Iraq prima e durante l’era di Saddam era un Paese secolare in cui la religione non aveva niente a che fare con lo Stato, adesso l’occupazione americana ha portato un certo numero di partiti composti da estremisti religiosi che, alleati con l’Iran, governano l’Iraq. Le donne adesso portano il velo e non possono più uscire di casa da sole.
Ancora non ho scritto nulla su questa trasformazione. Invece i miei primi racconti riflettono il tipo di libertà in cui sono cresciuta e nella quale vivevo in Iraq.

Tu sei una tra i tanti iracheni, scrittori e non, che vivono in diaspora. Pensi mai a un ‘ritorno a casa’?

In un certo senso non penso di avere mai lasciato casa. Un modo di dire recita: “Ci sono due tipi di persone: quelli che vivono dentro casa e quelli la cui casa vive dentro di loro.” Io appartengo alla seconda categoria.

Pensi che vi sia differenza tra la letteratura degli iracheni che scrivono in patria e quelli che invece scrivono dalla diaspora? E se c’è, qual è?

Sì, c’è una grande differenza. La lingua è una creatura vivente. Cresce, matura, appassisce e rinasce accanto al concetto di ‘casa’, che a sua volta cresce, matura, appassisce e rinasce. Quando sei ‘a casa’, provi in prima persona la felicità, il dolore, la vittoria, il senso di sconfitta e le tante trasformazioni che colpiscono casa tua. La lingua, il modo d’esprimerti, persino le barzellette si trasformano. Quando si è a casa, si partecipa attivamente, insieme alla comunità, a rinnovare l’eredità culturale, basandosi sulle ultime esperienze e gli ultimi eventi che coinvolgono sia l’individuo sia la comunità. Quando adesso mi capita di incontrare un Iracheno che vive in patria, a volte mi sfuggono alcune delle espressioni e delle parole che usa, perché esiste un nuovo vocabolario, con uno slang che io, vivendo all’estero, non conosco; né ho idea di come sia nato, di come sia stato creato, quale esperienza collettiva vi sia dietro una tale creazione. Scrivere è un’esperienza viva.
Invece gli scrittori ‘in diaspora’, se vogliamo chiamarli così, scrivono dell’Iraq che è vivo nella loro memoria, che costituisce la ‘loro’ patria personale. Ecco perché dico sempre che ogni scrittore iracheno che vive all’estero possiede un ‘Iraq’ unico, esclusivo, quello della propria memoria. Uno scrittore che ha lasciato l’Iraq negli anni Cinquanta dello scorso secolo ricorda l‘Iraq degli anni Cinquanta; uno che invece se ne è andato negli anni Settanta conosceva e dunque ricorda il Paese di quel periodo; e così via. Abbiamo tutti il nostro ‘paradiso perduto’.

Tante volte, l’arte fiorisce nei momenti di maggiore complessità e in situazioni di crisi estrema. Si tratta di un paradosso umano che molte persone faticano a comprendere. Si chiedono come un artista possa riuscire a creare quando non c’è né cibo né energia elettrica né alcun tipo di bene primario a portata di mano. Credi che sia questo il caso delle lettere irachene? Cosa sta avvenendo nel mondo letterario iracheno e, più in generale, in quello artistico?

È vero, l’arte a volte fiorisce in situazioni di crisi. Penso tuttavia che nel mio Paese sia soprattutto la poesia a fiorire in un momento critico come questo, perché la poesia è diretta espressione emotiva. Scrivere romanzi e racconti richiede maggiore concentrazione e tempo. Posso raccontarti tante cose sulla letteratura irachena durante l’embargo, perché a quei tempi ero in contatto diretto con molti scrittori e leggevo le loro opere. Erano anni duri, molto difficili. Trascorrevano senza che si potesse nemmeno lontanamente intravedere la luce all’uscita del tunnel. E tuttavia, una marea di scrittura ci inondava. Una scrittrice irachena ha spiegato il fenomeno in questi termini: “Scriviamo per sopravvivere”, ha detto. La scrittura dava una sensazione di sopravvivenza, offriva la possibilità di resistere alla morte e all’annullamento, che costituivano la materia prima delle sanzioni. Forse ti sorprenderà sapere che esisteva una nuova generazione di poeti e narratori, nonostante non fosse possibile leggere nulla di quello che era stato pubblicato durante gli ultimi tredici anni: una sanzione delle Nazioni Uniti proibiva di spedire in Iraq libri e addirittura riviste che pesassero 50 grammi o più. Eppure, questi autori scrivevano, e scrivono, in uno stile talmente moderno e al passo coi tempi che ha dell’incredibile. Si sono inventati persino dei metodi per stampare e distribuire le proprie opere. La chiamavano “cultura della fotocopia”. Fotocopiavano le loro opere in duecento copie (a volte di più, se le finanze glielo permettevano), chiedevano a un amico artista di disegnare una bella copertina in bianco e nero, ed ecco fatto.
A quanto pare, la cultura della fotocopia prevale ancora oggi, dopo l’occupazione. Gli scrittori adesso hanno maggiore libertà di criticare l’ex regime ma non l’attuale governo di burattini. Né tanto meno è loro consentito di usare la parola ‘occupazione’.

A quale tradizione letteraria ti senti più vicina? Chi sono gli scrittori a cui ti senti più legata?

Durante gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza ho letto molta letteratura in traduzione. Ho letto gli inglesi, gli americani, i tedeschi, i brasiliani, i francesi e i russi, insieme agli arabi. Erano gli anni Sessanta, cioè l’età dell’oro per tutto quello che riguardava le traduzioni letterarie nel mio Paese e nell’intera regione. Era un periodo di trambusti, rivoluzioni e grandi aspettative. C’erano tante nuove tendenze in letteratura e nelle arti in genere. La mia generazione ha tratto grande beneficio dalle novità di quel periodo. Per quanto mi riguarda, credo di appartenere per lo più alla tradizione del realismo ma mista a elementi di giallo e di letteratura fantastica. Una specie di mescolanza tra Anton Cechov ed Edgar Allan Poe. Ma non ne sono certa. Te l’ho detto, non mi è particolarmente facile parlare della mia scrittura! Ho letto e continuo a leggere tanti, tantissimi scrittori.
In ogni fase della mia vita, ho avuto una particolare passione per uno scrittore, per poi prediligerne un altro. Un tempo avevamo davvero un gran numero di scrittori a cui potere attingere. Poi ho cominciato a leggere in inglese e adesso quasi tutto quello che leggo è o scritto originariamente o tradotto in inglese.

Ti consideri una scrittrice migrante?

Non lo so, ma quando parlo di me dico che sono una scrittrice irachena residente in Egitto.
Però mi piace l’idea del vostro El Ghibli. È magnifico avere una rivista specializzata in scrittura della migrazione. Il dibattito è sempre esistito: se un arabo scrive in una lingua che non è la propria lingua madre, sarà considerato uno scrittore arabo o uno scrittore della lingua in cui scrive? Rispondere a questo quesito è un’impresa impervia. D’altro canto, è un dato di fatto che sempre più persone migrano in altri paesi, acquisiscono competenza comunicativa in altri idiomi e scrivono nelle lingue acquisite. Come classificare questi scrittori? Poi c’è il caso degli scrittori arabi che migrano in altri paesi arabi e scrivono nella stessa lingua: l’arabo. Come classificarli? Una situazione simile riguarda gi scrittori che scrivono in inglese. Uno scrittore britannico che vive negli Stati Uniti e scrive in inglese è considerato americano o britannico?
È difficile da dire, perché la scrittura non è soltanto una lingua che serve da strumento. La scrittura è radici, retaggio culturale, un modo di pensare, un modo di vivere e tanto altro ancora.
Comunque è una bella cosa che ci si prenda cura di questo tipo di letteratura che valica i confini, che sia studiata, perché è davvero diversa, richiede una classificazione a sé.

Grazie, Buthaina, e buon lavoro.

Grazie e auguri.

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Anno 2, Numero 11
March 2006

 

 

 

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