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un invito a scoprire il vero volto della religione musulmana: connecting faith di sanchita islam

elisabetta marino

L’attacco terroristico al World Trade Center dell’11 settembre 2001 e le sue drammatiche ripercussioni hanno contribuito ad acuire antichi contrasti, ad alimentare tensioni e incomprensioni generate dall’ignoranza, rendendo più solida quella barriera invisibile che, ancora oggi, pare ostacolare un sereno dialogo interreligioso che possa realmente condurre alla pace.

Nel suo film intitolato Connecting Faith (2004), Sanchita Islam - artista multimediale britannica di origine bangladese - sembra porsi quale obiettivo primario quello di superare eventuali percezioni stereotipate legate al mondo musulmano, riuscendo quindi a dischiudere preziosi canali di comunicazione capaci di “connettere” realtà erroneamente percepite come estranee, quasi inconciliabili.

Il film, della durata di 42 minuti, offre le testimonianze esemplificative di tre giovani musulmani di origine bangladese (Aveen Ali, Nurul Islam e Malati Abdul Hamid) che, pur vivendo in luoghi del mondo tra loro remoti (rispettivamente Dacca, Londra e Kuala Lumpur), sono sostenuti dallo stesso desiderio di apertura e di condivisione dei tratti fondamentali della loro cultura e religione, il cui vero volto viene finalmente svelato. Come commenta Sanchita Islam, “after 9/11 Muslims have been shown as pariahs and potential terrorists”(1): Connecting Faith sembra fornire una risposta valida alle eccessive e pericolose semplificazioni spesso proposte dai media.

Le tre voci narranti la propria storia personale e familiare si accompagnano alle immagini di Dacca, della “Banglatown” di Londra (che si snoda lungo Brick Lane) e di una Kuala Lumpur multiculturale, in cui la tradizione - rappresentata dalle inquadrature degli abiti colorati, degli utensili per la cucina, dei cibi - viene costantemente affiancata dalla modernità delle sgargianti scritte al neon, delle insegne di una nota catena di fast food, o dalle riprese del traffico cittadino, quasi senza soluzione di continuità da un angolo all’altro del globo. Reinterpretando in senso positivo e costruttivo il fenomeno della globalizzazione, Sanchita Islam sembra invitare il suo pubblico a soffermarsi non sulle divergenze ma sui punti di contatto tra culture, i cui tratti esterni si corrispondono in un gioco di specchi che annulla l’idea dell’altro da sé e che incoraggia, invece, al dialogo.

Ogni narrazione affronta direttamente il tema della religione musulmana, uno dei cardini attorno ai quali l’esistenza di Aveen, Nurul e Malati è articolata. Si assiste, tuttavia, a un interessante fenomeno di superamento delle aspettative del pubblico, cui viene per prima presentata una ragazza bangladese di vent’anni, Aveen, che indossa abiti occidentali, che studia “Business Administration” all’università e che è cresciuta in un ambiente liberale, in una famiglia in cui alle donne non è mai stata negata la possibilità di studiare e che, anzi, fa dell’istruzione (e della capacità di conoscere e interpretare il reale che ad essa è sottesa) un valore primario. Aveen desidera correggere lo stereotipo secondo il quale paesi come il suo, in cui la religione musulmana è osservata, sarebbero caratterizzati da un’assoluta rigidità di posizioni, da un forte senso di chiusura, reso ancora più marcato dopo l’11 settembre: pur ammettendo la distanza che intercorre tra le generazioni passate e la propria, Aveen dà adeguato risalto alla felice convivenza tra culture e religioni nel Bangladesh contemporaneo (“we welcome any religion, any culture”), concludendo che “real Muslims, who are educated, have freedom, have an open mind”. La sfida che Aveen pare lanciare attraverso la cinepresa di Sanchita Islam si traduce nel ruolo primario da attribuire alla cultura, all’istruzione e alla conoscenza, e nella volontà di assumersi le proprie responsabilità per giungere alla realizzazione di un mondo migliore: “I want to be a person who influences people to change their way of thinking […] I want to make that difference”.

La seconda testimonianza, quella del fotografo venticinquenne Nurul Islam, presenta un ulteriore elemento di divergenza rispetto alle possibili aspettative: in una città come Londra, la cui fisionomia è dinamica, costantemente plasmata e riplasmata attraverso il contatto intenso tra le sue numerose culture stanziali (contatto che spesso conduce a interessanti fenomeni di sincretismo, di fusione), la religione musulmana, lungi dall’essere una semplice componente dell’identità del narratore, ne costituisce il fulcro, il motore di ogni azione: “religion is the most important thing in my life”. Si comprende, quindi, lo sforzo di Nurul di spiegare che “Islam is a very peaceful religion” e che spesso i media presentano immagini parziali, a volte distorte, che si fissano nelle menti generando il pregiudizio.

Le parole di Malati Abdul Hamid, studentessa in legge ventunenne, residente a Kuala Lumpur, sono forse le più significative all’interno di Connecting Faith. Oltre a porre in risalto la pari dignità riconosciuta nel suo paese alle diverse culture e religioni che ne costituiscono il mosaico, Malati sembra completare il discorso iniziato da Aveen e Nurul, sottolineando l’importanza del rispetto reciproco, la necessità di conoscere, l’urgenza di educare il mondo all’interculturalità. Nei confronti dell’Islam, pur centrale nella sua esperienza di vita, si esprime in questo modo: “Islam is beautiful […] but like a beautiful painting you can’t compel someone to say that it is beautiful”.

Il punto più interessante della sua testimonianza è forse quello in cui la giovane affronta la percezione errata che l’occidente ha elaborato delle donne musulmane come “oppressed” e “weak”, succubi delle figure maschili e, a tal proposito, riporta la sua esperienza personale, legata allo stupore di chi non riesce a coniugare il suo inglese perfetto e il suo elevato livello di istruzione con l’hijab, il velo che porta sul capo in segno di osservanza dei precetti dell’Islam. Con grande precisione e lucidità Malati scinde dall’aspetto religioso la condizione di inferiorità gerarchica ricoperta dalle donne in alcuni paesi a prevalenza musulmana, scoprendone invece le radici nella Storia, nell’articolazione sociale di molte nazioni, nella struttura patriarcale delle famiglie. La pari opportunità d’istruzione tra i sessi, foriera di un atteggiamento di serena apertura mentale, si configura anche in questo caso come possibile soluzione al problema.

Il film si conclude con la rapida successione di fotogrammi che ritraggono i volti dei tre protagonisti, vedute delle città in cui risiedono, immagini di uomini e donne, ora in abiti tradizionali e ora occidentali, seguendo quell’idea di “connessione” che, simile a un filo, ha avuto modo di snodarsi lungo tutta la narrazione. Tra le immagini si inserisce anche la visione dinamica della mano di Sanchita Islam intenta a tratteggiare i contorni di una o più città, quasi a voler comunicare al pubblico il contributo che l’arte, in tutte le sue manifestazioni, può offrire alla costruzione di una nuova società.

La pellicola si chiude sull’immagine simbolica di un fiume, canale di comunicazione privilegiato in tempi antichi e recenti, nelle cui acque in continuo mutamento, nella cui fluidità priva di ostacoli e confini, si coglie appieno e si sintetizza il profondo messaggio di unione espresso da Sanchita Islam in Connecting Faith.

Sanchita Islam Nata a Manchester nel 1974 da genitori bangladesi, l’artista multimediale Sanchita Islam ha studiato prima alla “London School of Economics”, ha in seguito ottenuto il suo Master of Arts in “screenwriting and directing” presso la “Northern Media School” (“Hallam University”, Sheffield), e ha completato la sua formazione nel 1999, alla “Chelsea School of Art and Design” di Londra, città dove attualmente risiede. “Because of my unconventional educational background” – commenta Sanchita – “I have carved my own practise in a very unique fashion, combining art, film and writing”(2).
Sanchita Islam coordina la “Pigmentexplosion” (http://www.pigmentexplosion.com/projects.html), un’associazione nata con l’intento di organizzare eventi artistici live nella zona di Brick Lane e che, a partire dal 1999, ha iniziato a promuovere numerosi progetti nel campo della pittura, del disegno, della scrittura e della cinematografia, con il sostegno di enti di formazione importanti come il “British Council” (come nel caso del film Connecting Faith), l’“Arts Council” e il “Commonwealth Institute”. Sanchita ha al suo attivo undici film, proiettati nell’ambito di manifestazioni internazionali a Londra, Parigi, Kuala Lumpur, New York, Francoforte e in varie città del Bangladesh. Ha esposto i suoi disegni, dipinti e fotografie a Londra, Parigi, New York, e ha pubblicato tre volumi: From Briarwood to Barishal to Brick Lane (2002), Old Meets Young (2004) e Hidden (2005).

(1) Si confronti http://www.thedailystar.net/magazine/2004/04/05/film.htm

(2) Corrispondenza privata (28 agosto 2005).

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Anno 2, Numero 11
March 2006

 

 

 

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