Nota biografica | Versione lettura |
I velieri di Cheng volavano sul mare sotto il sole tra le onde, apparivano nell’aria
vertiginosamente appesi al filo del giorno in lento scorrimento come aquiloni dalle
sembianze di draghi incombenti in una ridda beffarda e crudele, o sotto la forma di
muliebri farfalle nel vago viaggio di fiore in fiore disperatamente cercando il cibo che le
conduca alla fine del proprio tempo. Uomini accovacciati nelle proprie barche di
pescatori, il capo avvolto in drappi salini bianchi, donne intente a rappezzare le reti
stese sulle spiagge assolate, le mani opache ed accidentate come sentieri acciottolati
scardinati dal tempo, ragazzi in pensiero per lo scambio di una conchiglia o il rotolio
parabolico di una biglia, il labbro superiore tirato sotto una lanugine lieve trasparente, si
fermavano per osservare il rollio superbo di quei colori aerei temendo che da un
momento all’altro si rivolgessero verso la riva.
Tra i villaggi costieri vicini al delta del Fiume era corsa voce che il pericolo veniva dal
mare. Ed era un pericolo mortale.
Cheng e i suoi uomini erano l’onda lunga e dimenticata di un terremoto scoppiato tra
le foreste di mangrovia dell’Annam, quando la dinastia regnante e i nuovi pretendenti al
trono si scontrarono cocciando tanto forte da richiamare l’attenzione di tutti i banditi, i
tagliagole e gli squali disseminati tra gli orizzonti acquitrinosi del mare cinese e la
giungla di rame del regno di Siam. Come cani selvaggi si mossero per anni in branchi
calamitosi assaltando insediamenti fluviali e costieri, depredando templi ed
incendiando città. Navi, cannoni, munizioni e armi di ogni sorta erano forniti in
abbondanza dai signori di Canton, banchieri e mercanti, armatori del sopruso dei quali
Cheng Zi, fratello maggiore di Cheng I, era il braccio guerresco e l’esecutore assetato
di sangue.
I tesori dell’Annam arrivarono a Canton sulle giunche protette dai pirati. Un affare che,
tirati i conti, rendeva bene e dava lustro alle migliori famiglie della città. Tutto andò per il
verso giusto fin quando la dinastia legittima del regno usurpato non organizzò una
controffensiva con il sostegno morale del Figlio del Cielo e non liberò la baia di Annam
dai suoi nemici. In una furiosa battaglia Cheng Zi perse la vita e i pirati furono messi in
fuga. Questi fatti accaddero nel sesto e nel settimo anno dell’impero di Jiaqing, che
aveva ereditato il potere del grande Qianlong.
Quei poveri pescatori, lontani dalla foce del Fiume per azzardo o per fame, sapevano
che l’orda della storia li avrebbe sfiorati, sarebbe passata tra di loro come la brezza del
mattino che ti solletica la pancia e avrebbe portato con sé uno di loro?
Quale caso per queste genti? si chiedevano i contadini, i pescatori che cedevano il
proprio pane, i propri figli a dei vagabondi; che vedevano i propri figli passare leggeri
come vagabondi su navi formidabili e veloci, appostati dietro cannoncini neri pronti a
scattare, che mettevano paura con le loro bocche digrignanti e assanguate. I propri figli
vagare famelici. I figli vagare famelici e mistici attorno alla casa del padre, avvolti in
sudici stracci, nella mano il sole tagliente del pugnale.
Era accaduto a Yen Pao e agli altri pescatori di Sin Hwy; si erano trovati ad una
manciata di miglia dalla costa, intenti alla pesca paziente di ogni giorno al largo del
Fiume. Sospesi nella speranza che i teli leggiadri stagliantisi sul limite delle rigonfie
nubi bianche non li scorgessero, così bassi e sottili, senza vele, senza nome cercavano
la propria casa, le reti sulla spiaggia, la spiaggia deserta, vicina e irragiungibile nella
piega dell’occhio sopra la barca e l’acqua.
Ma la speranza rimane un’abitudine, incancellabile nonostante le continue ineffabili
delusioni ricadano prevedibili sugli uomini cullati dal placido dondolio dei minuti, delle
ore. I pirati avevano visto linee sottili sparse davanti alla terra, sul mare più chiaro che
schiumando la bagna. Fuggivano lontano, verso un arcipelago sicuro. Incalzati dal
vento delle piogge che li avrebbe costretti ad attendere il bel tempo al riparo di una baia
per settimane, per mesi o per sempre sul fondo gibboso del mistero marino, non si
sarebbero dovuti fermare. Ma erano in cerca di cibo.
Yen nascose nella cesta dei pesci Chang, il figlio quindicenne che doveva imparare,
prezioso cimelio di famiglia; lo fece accovacciare e gli gettò sopra il pescato. Ma non
pensava. Aveva sentito che portavano via tutto quello che c’era di buono: miglio, riso
acqua, armi, braccia e donne. Ma era troppo tardi per pensare.
Quando capì che correvano verso di loro, il caposquadra sventolò il pericolo verso il
villaggio: chi era rimasto a terra poteva ancora fuggire.
Furono rapidi come il tempo, li accerchiarono giocando a schivarli, i più audaci
slanciandosi stretti a una fune con la sciabola tagliante sul braccio teso. Una zattera
leggerissima si avvicinò a Yen, era incredibile che quella zanzara dalle zampe lunghe
come trampoli (pali, alberi, timoni per dare ancheggiando una rotta) avesse attraversato
il mare, da isola ad isola senza andare a picco; eppure quelli ci stavano sopra come se
fossero su un vascello della flotta dell’Imperatore. Inchiodarono Yen con sguardi truci.
Tra loro dominava per la stazza il capo, che per farsi più grosso stava seduto in groppa
ad un paio dei suoi marinai. Vedendo un uomo inerme, magro e scemo per la rapidità
con cui gli erano piombati addosso, bestemmiò le Madri e si mise a ridere tosto. I
compagni si gettarono sulla barchetta e spazzarono tutto ciò che si poteva masticare.
Altri pirati si fecero vicini alle piccole imbarcazioni, piroettando intorno, descrivendo
percorsi elicoidali o lentamente sciabordando accanto. Alcuni pescatori, più inesperti
dei soprusi del mare, invaghiti della parola coraggio, tentarono un’improvvisa fuga, ma
furono subito presi e spaventati caddero, i rammendi dei pantaloni ingialliti dal sole.
Nella laguna le onde danzavano la varia sinfonia dell’acqua.
Poi le vele colorate si allontanarono, lasciando libere le piccole imbarcazioni
alleggerite delle ceste, del pesce pescato. Non avevano toccato i pescatori, non li
avevano derubati dei figli: solo Yen piangeva fra le desolanti parole che il mare rivolgeva
alla sua barca, vuoto dello scarso raccolto e di ciò che l’uomo aveva nascosto
stupidamente sotto di esso.
La preda più ricca, le ceste più pesanti furono portate dai ladroni sul vascello di
Cheng I, perché il loro signore e l’equipaggio numeroso si potessero nutrire di pesce
fresco e cereali. Quando i cuochi rovesciarono la più pesante delle ceste, furono
sorpresi come l’avventore di una taverna che libando vino e addentando ostriche
percepisse rotolare dal centro della lingua verso la porta degli incisivi una pallida perla:
tra i vimini e i pesci che ancora sbattevano la coda fremendo nel sentore istintivo del
placido liquido amico a due, tre scodazzi di distanza, apparve viscido e untuoso un
giovane eccezionale, esile ed elettrico come un gimnoto, aureo e delicato come un
pagello.
La cena prelibata fu servita scherzosamente su un vassoio al cospetto di Cheng I
che ridendo esclamò.
“Benvenuto, acerbo frutto marino!”
Quindi batté le mani e le donne portarono fuori il vassoio tintinnante per lavare e
profumare ciò che conteneva.
Il giovane tornò bellissimo nei panni di lino semplice, bianco, che indossava come
se fosse un reuccio incoronato schiavo. La paura, che ispirava i tagli dello sguardo e i
guizzi delle membra legate su un lenzuolo di pesce arrosto, era stata sostituita durante
il bagno, lungo ed estenuante, dalla languida postura di un corpo acerbo e
dall’espressione inerte di un volto giovane che aspira impaziente al negato riposo.
“Sarai sempre accanto a me,” disse Cheng I al giovane che stava in piedi davanti a
lui guardando oltre, verso il drappo cinereo e cangiante che rivestiva il legno grezzo
della cabina, quasi volesse attraversarlo per raggiungere un angolo buio e impensato.
Chi ha parlato? pensò Chang, non ero solo in questo sogno matto screziato di
carezze e d’irrisione? e tornò a perdersi oscuramente nell’immagine trasparente,
trasfusa dalla lotta, di occhi fondi e limpidi come il pozzo in cui il figlio di un pescatore
vide una nuova vita, un nuovo mondo.