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l'allagamento

barbara serdakowski

Verso le quattro di mattina non si può pensare a tutto. Il letto si muoveva, ma nel sonno succedono tante cose assai più inquietanti, che un movimento di letto non può costituire di per sé un interrogativo maggiore. Anche il rumore assordante e diffuso, simile a una cascata incombente, non riuscì ad attirare il minimo mio sospetto. I sogni sono così. Qualcosa irrompe come il mercurio nel tubicino del fragile termometro di vetro immerso in una tazza di tè, senza che uno ne possa veramente seguire la crescita, né tantomeno la propagazione oltre i confini ammessi e le mie caviglie arginarono il flusso delle lenzuola acquee. Il letto era mare e io prendevo ormai sembianze di pesce stordito da un’esplosione, che espone la pancia alla portata di tutti.

Ebbi tempo di scegliere il mio ultimo pensiero. Lo dedicai a mia madre. Vedevo il suo viso invecchiare sulle rare fotografie che ricevevo negli anni. Ogni foto sembrava fatta come apposta, ogni volta da più lontano. Come se volesse nascondersi in fondo alla fotografia. Il suo eterno sorriso calcificato sulle rughe. Un gesto, una carezza e avrebbe potuto sgretolarsi come un’iguana imbalsamata. Sull’ultima fotografia non riuscivo a vedere nient’altro che la sua sagoma dietro un albero spoglio, incappucciata per nascondere il corpo, forse già inesistente, appoggiata al tronco per non accasciarsi, mi sembrò girata di spalle. Credo che dentro quei suoi vestiti lei ormai non ci fosse più. Ci aveva lasciato l’impronta del suo essere, il suo guscio, ma era andata via, cicala.

L’allagamento si prese i miei capelli come alghe e i miei seni affiorarono, fluttuanti, con due piccoli fari spenti che spuntavano, sommersi spasmodicamente da ondate d’acqua piovana. Quei due fari erano troppo piccoli per avvisare gli oggetti di passare alla larga della mia testa, e mi sentii investita da libri e bibelots svariati. Non si ha idea di quanti oggetti sciolti si possiedano veramente prima di essere allagati.

Giacevo nuda, le acque si erano calmate a livello del mio viso. Vedevo il mio corpo davanti a me, disteso, con ombre grigie e verdastre, cangianti. Era un corpo dilatato e senza peso. Pensai che forse avrei dovuto bucarmi l’ombelico e infilarci un orecchino d’oro con una pietra rossa, così almeno qualcosa avrebbe brillato in mezzo a tutta questa carne livida. Senza luce anche la stanza era nuda, come me; il silenzio di entrambe, totale. Pensai di dormire ma il freddo mi pervase. Mi tirai su il pesante lenzuolo bagnato. Lo dovetti sorreggere con due mani perché il movimento dell’acqua lo trascinava lentamente via, come una foglia morta verso uno scarico.

Sentii che sarei andata anch’io nello scarico se solo avessi lasciato la presa. Le mie dita s’irrigidirono e fissarono permanentemente la loro impronta sul tessuto di cotone. Tutti gli oggetti che amavo erano qui intorno a me, immersi nella placenta della mia stanza. Fuori si udivano adesso voci lontane come attraverso un timpano teso di pelle di capra.

- Torneremo dopo per il corpo...

Adesso davanti a me sfilavano i fiori secchi del vaso all’entrata, le caramelle dall’involucro argentato, le mie ciabatte verde mela col ponpon...

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Anno 2, Numero 11
March 2006

 

 

 

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