El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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ritratto di tre scrittrici

fiorano rancati

Yvonne Vera

Ivonne Vera non potrò più incontrarla. Un male inclemente ha interrotto la sua vita a soli 40 anni. Il 7 aprile 2005 in Canada. Le foto ci restituiscono un volto dolce e pensoso, con alcuni dei tratti austeri delle donne del popolo shoona. Nata a Bulawayo, Zimbabwe, ha vissuto da vicino la lunga stagione delle violenze prima dell'Indipendenza (1980) e di quelle atroci degli anni a seguire. Ne ha fatto argomento dei suoi libri, in cui ha descritto la crudeltà della tragedia, senza abbandonare la speranza. Ha conseguito il dottorato in Canada e ha scelto di scrivere in inglese, talmente bene da aver avuto fama e riconoscimenti. Aveva scelto il lavoro culturale in patria, perché cultura e memoria sono cemento per le nazioni nuove. Avrei avuto molte cose da chiederle.

Il fuoco e la farfalla - Yvonne Vera
Frassinelli, Milano 2002
pp.217

Il libro si apre con immagini del passato : il lavoro duro dei braccianti, in cui il ritmo aiuta a sopportare la fatica e, immediatamente dopo, i diciassette impiccati che hanno osato la ribellione. Fumbatha è nato quando il padre è morto. Come tanti è andato a Makokoba, la township ai margini di Buluwayo. Qui vede Phephelaphi, giovane e bella, uscire dal fiume e se ne innamora. La storia d'amore nella casa (quattro mura coperte dall'eternit) di Sidojiwe, una parte di Makokoba, sembra destinata all'eternità. Ma Phephelaphi si aspetta molto dal futuro, soprattutto per la sua dignità e autonomia e non accetta di dover restare nei confini della township...
In un narrare non lineare nei tempi, si muovono altri personaggi a rendere il romanzo insieme coerente e corale, dentro una quotidianità che non ha eroi e che assorbe violenza e tragedia nella dimensione comune del vivere. Il linguaggio, immaginifico e anticonvenzionale, si unisce a un rigore antropologico e ci dà uno spaccato socio-storico di grande realismo. Ci restano, poi,nella memoria i bambini, capaci di giocare nelle macerie e tra i rifiuti, cui sono dedicate alcune delle pagine più belle del libro.

Le vergini delle rocce - Yvonne Vera
Frassinelli, Milano 2004
pp.247

Lungo la strada che da Kezi porta a Bulawayo, poco prima della città, ci sono i Magazzini Thundabantu, dietro i quali sono sorte una miriade di baracche dove abita chi lavora in città ma non vi risiede. I Magazzini sono anche un crocevia, un punto di approdo provvisorio, di arrivi e partenze sui bus che vi fanno capolinea. Tutta la prima parte del libro è dedicata alla vita brulicante della periferia. Qui ha luogo anche l'amore di Thenjive, che arriva da Kezi, dove sempre ritorna in attesa della sorella Nonceba, che sta per finire gli studi. L'Indipendenza potrebbe portare un vivere diverso se le violenze fratricide avessero termine. Ma è proprio questa violenza che colpisce le due sorelle. Thenjive viene assassinata e Nonceba violentata e mutilata da un ex-combattente che non sa neanche rendersi conto del perché. Anche i Magazzini Thandabantu saranno saccheggiati e il proprietario, Mahlatini ferocemente ucciso. Anni dopo, nel 1986, Nonceba e il compagno di Thenjive, in una solidale convivenza, tentano di ritrovare un orizzonte in un paese che sembra aver ricuperato una possibilità di futuro insieme alla necessità di ridarsi un passato. La capacità di Yvonne Vera è quella di farci condividere passo passo emotivamente le tragedie dei personaggi e insieme spiegarci, senza retorica che sono parte della storia di un popolo.

Dionne Brand

Dionne Brand è nata a Trinidad nel 1953. Vive a Toronto dagli anni '70. Ha avuto una lunga stagione di impegno politico e culturale per i diritti dei neri. Femminista militante, è stata autrice di articoli e di saggi di denuncia ma anche di lucida analisi della diaspora afro-americana. Autrice di poesia, pubblica il suo primo libro di narrativa nel 1988. E' una raccolta di racconti seguita solo nel 1996 da un romanzo, "In another place, not here". Con "At the full and change of the moon" (In italiano "Di luna piena e di luna calante") consolida la sua fama internazionale. In "What we all long for" (2005, in italiano "Il libro dei desideri") muta attenzioni e stile. Ho sintetizzato qui , riportando fedelmente i concetti, una lunga, e piacevole, conversazione.

Ho cercato un filo conduttore nei suoi due romanzi. Ritengo che ruoti attorno all'identità, alla memoria, al dolore.E' vero?

I due romanzi sono decisamente diversi. L'identità, se intesa come culturale, etnica, non mi interessa. Noi siamo. Noi siamo individui con storie diverse e l'identità è quella che ci siamo costruita con la nostra storia personale, i nostri sentimenti, il nostro rapporto dialettico con la realtà che ci circonda. Non credo a identità collettive che sono solo barriere. La memoria, si. In "Di luna piena e di luna calante" la memoria è importante. Ho cercato una volta di ricostruire la storia della mia famiglia e sono potuta risalire solo al secolo scorso. Prima è un indistinto perdersi nel nulla. Ho ripreso e rielaborato nella storia di Marie-Ursule un fatto di cronaca realmente accaduto. Ho definito li la Tragedia, il rapporto con la Storia, ma gli uomini e le donne poi vivono nel loro specifico spazio e nel loro specifico tempo. Il dolore, si. E' dentro le persone, dentro il loro bisogno di felicità non soddisfatto. Ma ne "Il libro dei desideri" non è il dolore, è il disagio che spesso diviene rabbia se rimane irrisolto che unisce i personaggi. La realtà urbana di Toronto è un ambiente in continuo cambiamento: mai tanta gente diversa ha vissuto insieme. Ho tentato di raccontare questo, cogliendone i disequilibri, ma anche la possibilità di una diversa armonia...

Dionne sorride compiacente alla mia insistenza sul Caribe. Non crede che i Caraibi siano, culturalmente, un insieme omogeneo. Ciascun paese, isola ha un rapporto privilegiato con l' area linguistica dell'ex-colonizzatore, anzi, con le sue metropoli. Di qui la sua scelta della lingua, l'inglese. Ha cercato di usare, nel suo primo romanzo, il creolo che, però, si espande in mille rivoli diversi, con il risultato di una pratica incomunicabilità. E' importante quindi apprendere bene la lingua dell'ex-colonizzatore, innovarla, adattarla alle esigenze della propria scrittura. Del resto, dice, V.S.Naipaul, di Trinidad, è oggi uno dei più grandi scrittori di lingua inglese. I Caraibi nella loro varietà, diversità, di lingue, colori, musiche sono belli per questo. E lei, poi, ne è ormai lontana, cittadina di una grande metropoli in cui le origini di ciascuno cominciano ad essere indistinte, meno importanti, per Dionne, della capacità, reale, di vivere insieme....

Di luna piena e di luna calante - Dionne Brand
Giunti, Firenze 2004
pp.280

1824: Quando Marie Ursule prepara il veleno per uccidere tutti i suoi compagni di una ribellione sconfitta (la morte è l'ultima libertà) ha già deciso che la piccola Bola vivrà. E' condotta lontano da Kamena, tornato apposta dalle Terres Bouillantes, luogo felice di libertà di cui non riuscirà più a ritrovare la via, per mantenere una promessa. Bola vive cent'anni nel vecchio convento delle Orsoline sulla riva rocciosa dell'oceano e diviene capostipite di un albero genealogico dai molti rami. L'autrice narra solo di alcuni di questi rami perché è solo lontanamente interessata all'epica di una racconto familiare da collocarsi nel contesto di due secoli, anche se si ritrova sottesa nelle singole vicende. Queste però non diventano mai metafore di una storia collettiva, se non per il fatto di avere precise collocazioni temporali, siano nella prima guerra mondiale o nell'Amsterdam contemporanea. I modi del racconto, della definizione dei personaggi, sono impietosi, alieni da quel vitalismo che caratterizza altri autori del Caribe, perché il dolore prevale sulla memoria, perché le necessità del vivere prevalgono sulle riflessioni dell'identità. Anche se l'ultima Bola, che riprende le tracce e rivive l'antica, sembra riacquistare la tranquillità in una dimensione senza tempo, che agli albori del XXI secolo non può che definirsi pazzia. Il romanzo è ricco di personaggi e di storie, che il lettore seguirà con diverse passioni, a seconda che ami il realismo magico o lo stretto resoconto del disagio contemporaneo. Il linguaggio è arduo, complesso e per questo affascinante, perché obbliga a una maggiore attenzione, ad addentrarsi in una scrittura che rifiuta la superficialità e cerca i modi di una condivisione non facile con un disagio che è profondo male di vivere e che quindi non può essere semplicemente compresso dentro una presa di coscienza storica e politica.

Il libro dei desideri - Dionne Brand
Giunti, Firenze 2005
pp.311

L’antefatto è una pericolosa fuga notturna dal Vietnam. Nella concitazione e nel caos il piccolo Quay è separato dai suoi genitori e finisce disperso tra i profughi. Anni dopo, divenuti ricchi proprietari di un ristorante a Toronto, i suoi genitori, e soprattutto la madre, sono ancora alla sua ricerca. Questa ricerca segna inevitabilmente la vita di Tuyen, la figlia nata in Canada, che si sta costruendo un’identità e vuole coltivare le sue ambizioni di artista. Essa è parte di un gruppo composto da coetanei (Carla, Oku, Jackie) di origini diverse e accomunati da un disagio esistenziale, che nasce da un’estraneità data dalle origini, dai legami familiari e dall’età. Le loro storie, come fili di una ragnatela che si dividono e si intrecciano, costituiscono il tessuto narrativo del libro cui si inserisce, quasi estraneo ma destinato a una congiunzione finale, il racconto in prima persona di Quay, giunto a Toronto. Se l’avvilupparsi finale risponde all’esigenza narrativa di dare conclusione alla trama, il romanzo trova il suo interesse nella dissezione dei personaggi, nella lucida descrizione di un male di vivere che si manifesta nell’accumularsi di una rabbia che segna il rapporto con una realtà urbana non facile. Dionne Brand non imputa il disagio solamente all’essere “straniero” ma anche a un dato esistenziale e generale legato alla mancanza di orizzonti, all’incapacità di definire valori oltre la condivisione, non sempre disponibile, dell’amicizia, ad amori frenati dall’egocentrismo. Qui l’esigenza dello scrittore non è il rapporto contrastato con la memoria ma quella di essere osservatore attento e concreto di psicologie fragili in un contesto che accentua il dramma. Dionne Brand ha scelto come terreno la città moderna, con cui si cimenta, sentendosene parte.

Calixthe Beyala

Calixthe Beyala è una bella signora e una scrittrice di successo. Ne è ben consapevole ed esige ammirazione. In parte gliela concediamo per discutere con lei, autrice di opere discontinue per temi, carattere e linguaggio. Nata in Camerun, in una bidonville ai margini della capitale, emigrata in Francia a 17 anni, sposata. Esordiente con scandalo per il linguaggio esplicito e crudo del suo primo romanzo (in italiano "A bruciarmi è stato il sole"), è passata poi a temi più leggeri che hanno conquistato i lettori ("Maman a un amant", etc). Un legame con l'Africa meditato e combattivo, trasposto nella scrittura con alterni risultati.
Ci racconta di essere amata anche dai lettori africani: è uno degli autori più venduti dell'Africa francofona. Ci tiene a sottolineare la sua indipendenza, la sua autonomia creativa non incline a condizionamenti e compromessi. Forte di un'esperienza di giurata all'ultimo Festival del cinema africano di Ouagadougou, ci sottolinea quanta sia la povertà creativa di un cinema succube delle logiche produttive e finanziarie dell'ex colonizzatore (condividiamo!). E di fronte ad una precisa domanda su Ngaremba, la pubblica scrivana degli emigrati del quartiere di Belleville, dal tragico destino, de "Gli onori perduti", ci dice che il dolore del personaggio non è il rapporto contrastato con la città bianca (dolore ormai storicamente secondario) ma è dovuto al sentirsi impotente per l'Africa e le sue tragedie.... Confessiamo che a noi (plurale maiestatis) piace leggere i suoi libri (con qualche dubbio, ogni tanto).

A bruciarmi è stato il sole - Calixthe Beyala
Epochè, Milano 2005
pp.153

Q.G. (Quartier Generale) è una bidonville ai margini della metropoli: Qui vive Ateba, 19 anni, con una zia/madre, Ada. Succube di un'aspra vita quotidiana e della presenza indispensabile dell'uomo, Ada vuole costruire ad Ateba un destino che è il ripetersi passivo del suo, dentro un ambiente che non ha uscite, pervaso da una violenza che distrugge, innanzitutto, i sentimenti e riduce i rapporti . uomo-donna a sordide pratiche sessuali. Ateba percepisce, indaga, cerca vie d'uscita diverse dal prostituirsi, ma la gabbia si rinserra sempre più. A bruciarmi è stato il sole è l’opera-prima di Calixthe Belala. Non autobiografico nei fatti raccontati, esso esprime tuttavia una rabbia vissuta, che conduce a una visione spietata di una condizione femminile chiusa dentro barriere di un’Africa post-coloniale che ha difficoltà a trovare sé stessa. Il linguaggio è crudo, lo sviluppo della narrazione è senza compromessi. L’autrice ora lo colloca temporalmente in un momento di disperato bisogno di ribellione a una condizione di sottomissione atroce. Ora, dice, sono cambiati i tempi e la donna ha acquisito diritti, ruoli e diversi dolori. A bruciarmi è stato il sole è un romanzo di sincera passione, di solido racconto, che rimane, per personaggi e storia, una coinvolgente lettura.

Come cucinarsi il marito all’africana. - Calixthe Beyala
Epochè, Milano 2004
pp.151

Prendiamo dal risvolto di copertina, perché non sapremmo fare sintesi migliore… La signorina Aissatù è follemente innamorata di un maliano purosangue e celibe, Suleymane Bolobolo, che vive con la madre e il loro animale domestico, una gallina. Per sedurlo non bastano dolcezze e teneri baci, occorrono aromi tropicali che stregano e catturano. Mango selvatico, zenzero, marinata di spezie e zuppa di pesce. Si scatenano torrenti di estasi e di eccessi sessuali. Aissatou conosce i segreti della cucina per ammaliare gli uomini, che ha imparato, in Africa, dalla madre. Romanzo disinvolto, con qua e là, pochi, elementi di seria riflessione, si legge veloce e si addotta come libro di cucina perché le ricette che accompagnano ogni breve capitolo (25 in tutto) sono decisamente invitanti. Sono realizzabili nelle nostre cucine perché l’accurata traduzione ci spiega con quali carni possiamo sostituire il boa e il coccodrillo, ma anche perché, nella nostra società già fortunamente nel quotidiano meticcia, nei mercati sono reperibili il gombo e le banane plaintain (magari provenienti dal Venezuela e non dal continente nero). Il piacere del libro si giudicherà dal risultato. Da segnalare anche i bei disegni di Dominique Roll.

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Anno 2, Numero 9
September 2005

 

 

 

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