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l'uomo senza nome

harpreet singh soorae

Tutti mi chiamano Clint perché trovano che gli assomiglio. I miei genitori sono gli unici a chiamarmi con il mio vero nome.

E’ il modo in cui vado in giro per la città, non batto ciglio, non sorrido, non faccio caso agli altri, mastico uno stuzzicadenti e parlo il meno possibile.

“Ehi Clint, come butta?”

(un cenno del capo e subito capiscono il messaggio: è troppo preso dai suoi pensieri per risponderci)

Faccio così paura che la gente si aspetta di vedere Handsworth tappezzata da manifesti della mia faccia con sotto scritto RICERCATO VIVO O MORTO.

C’è chi pensa che è meglio vivere una vita tranquilla e mi trova d’accordo: non far sapere agli altri cosa ti passa per la testa e non sapranno chi sei. È meglio se nessuno ti conosce. E se non hai un nome non potranno neppure dire da dove provieni o a chi appartieni.

Ecco perché a volte mi arrabbio quando mi chiamano Clint. È proprio questo il mio dilemma. Clint è un nome ed io voglio essere l’uomo senza nome. Voglio che la gente vedendomi dica:
“Come si chiama quel tizio?”

E gli altri rispondano:
“Nessuno lo sa, esiste e basta. Non si sa da dove viene o dove va. Non si sa che pensa, sente o fa; non ha nome. È l’uomo senza nome.”

Non avere nome significa anche non avere vergogna né dolore; i nomi hanno il potere di attribuirti cose simili. Nella mia famiglia per esempio il nome esprime tutto: il villaggio in India, la casta, la religione, tutto quanto insomma. Mio padre e mio zio non fanno altro che parlarne, così come dell’onore e della storia che si porta dietro. Per me invece non è che una catena, che mi trattiene e mi fa impazzire.

E così, alle due e un quarto di un giovedì pomeriggio, mi imbatto in Sati.

“Che mi dici, Clint?”
“Che mi dici, Sati?”
“Niente.”
“Che hai lì?”
“Niente, solo una tv e altre cosette.”
“Capisco.”

Sati si guardò attorno e diede un’occhiata all’orologio.

“L’hai poi trovato un lavoro?” mi chiede
“ Naah.”
“ Senti amico, ti va una Special Brew? Da Sandhu sono in offerta, due lattine per una sterlina e novantanove.”

Era passato un bel po’ dall’ultima volta che avevo bevuto Special Brew di pomeriggio su un angolo di strada e volevo rimettermi in pari con Sati, perciò accettai.

“Tienimi d’occhio la tv e l’altra roba, eh, il mio amico Joshi dovrebbe passare a prendermi da un momento all’altro.”
“Ok, amico.”

Andò al negozio di alcolici di Sandhu a comprare la Special Brew. La giornata cominciava a promettere bene. Diedi un’occhiata alla tv: era un Sony al plasma nuovo di zecca, roba digitale, a vederla.
In quel preciso momento un’auto della polizia svoltò l’angolo con uno stridio di ruote e venne a fermarsi accanto a me.

Dalla vettura escono i poliziotti; con loro, un bianco dall’aria furibonda che indica me.

“Eccolo, è lui. Quello è l’indiano che ha svaligiato la mia casa.”

Il primo poliziotto dice:
“È sicuro?”
“Sì che sono sicuro. L’ho visto scappare. E’ quell’indiano.”

L’agente mi si avvicina, l’altro dice qualcosa alla radio.
“Signore, posso chiederle che ci fa con questa tv?”

Alzo le spalle.
“La stavo solo tenendo d’occhio. Mentre svoltavo l’angolo l’ho vista qui da una parte e ho pensato che doveva avercela lasciata qualcuno, così la stavo sorvegliando per evitare che la rubassero. Conosce Handsworth, agente.”

Così mi chiede il nome ma non gli rispondo e comunque non ne ho da dargli; io sono l’uomo senza nome, devo essere freddo e controllato.
Fisso l’agente con gli occhi socchiusi. Come Clint.

Due minuti dopo mi stanno portando alla centrale. Passiamo davanti a Sati che sta uscendo dal negozio con due lattine di Special Brew; si sta accendendo una Benson & Hedges che gli cade di bocca appena mi vede. Gli faccio un cenno col capo. Quando sei l’uomo senza nome un cenno del capo è molto significativo, dice tutto. Sa che non vuoterò il sacco.

Ma poi mi ritrovo in cella e mi chiedo, a che scopo? Sati mi avrebbe venduto. Tutti fottono tutti. Di questi tempi essere un indiano con un nome indiano non vuol dire un accidenti. Al giorno d’oggi in Inghilterra gli indiani si sbranano a vicenda di continuo e chiunque dica che sono una comunità è il più grosso sciocco che esista.

E così eccomi seduto in una cella sospettato di aver svaligiato la casa di un mezzo scemo miope che non riesce a distinguere un indiano dall’altro. Voglio dire, Sati aveva indosso la sua Fred Perry viola mentre io ho la giacca della tuta Adidas azzurra (con le Stan Smith dello stesso colore. Ero di umore Adidas quando mi sono svegliato quella mattina. Forse mi avrebbero dovuto chiamare Adidas Singh però in fondo no, va bene così).

Inizio a meditare ma dopo poco mi stanco e così mi metto a leggere le scritte sui muri; accanto alla piccola finestra blindata c’è scarabocchiato:

BNP(1)

Brucia tutti i negri
Brucia tutti i paki
Brucia tutti gli ebrei

Rifletto sull’origine di certi sentimenti e li riconduco al senso di privazione e di alienazione che provano alcuni giovani bianchi della classe operaia; capisco che forse le loro motivazioni non sono troppo diverse dal senso di alienazione che accompagna gli indiani come me.
Ed è quindi con spirito di solidarietà che mi sfilo il bracciale di ferro dal polso e sotto la diatriba incido la scritta:

Brucia tutti i toast

Mi piace.

Dopodiché rimango in attesa che l’agente venga a comunicarmi il responso.

Quattro ore dopo sono libero. Massih, il mio avvocato, ha dimostrato che ho un alibi e mi ha fatto rilasciare: ero al centro per l’impiego. Ma non appena metto piede in cortile ecco che mi arriva addosso di tutto:

“Cosa hai fatto? Perché? Vergogna! Disgraziato!”

E questo solo da mia madre. Mio padre non è ancora tornato dal pub. Alla fine si riduce tutto a una cosa sola: a dispetto della mia innocenza, facendomi beccare ho infangato il nome di famiglia. Rieccolo. Allora le faccio presente che non ho chiesto io nessuno dei nomi che porto e che sono pronto a cambiarlo se questo la fa sentire meglio. Mi chiede come altro vorrei chiamarmi e sono sul punto di dire Clint quando mi viene in mente che sarebbe meglio non sceglierne nessuno, così la prossima volta che qualcuno guarda il mio passaporto sotto la dicitura NOME troverà uno spazio vuoto e alla dogana mi guarderanno e sapranno che sono l’uomo senza nome.

Al giorno d’oggi uno può ritrovarsi nei guai anche solo a camminare tranquillamente per strada. Se ne può trarre un bell’insegnamento: nella vita non ha importanza ciò che fai, possono sempre sbatterti in cella per furto perciò è meglio se abbassi la testa, prendi ciò che viene e non stai tanto a preoccuparti di cosa fanno gli altri. Meglio tenersi in disparte. Un modo per farlo è svincolarsi da tutti i legami cancellando il proprio nome ed essere così l’unico padrone di se stesso.
Proprio in quel momento mi squilla il cellulare.

Suoneria: Il buono, il brutto e il cattivo.
Colore: Blu.
Screensaver: Bruce Lee.
Il nome parla da solo: il secco.
(è così che chiamo Sati perché un tempo era grasso, questo prima che smettesse di mangiare e cominciasse a bere Nourishment e far pesi. Ha funzionato.)

“Clint?”
“Sati”
“Che c’è?”
“Niente”
“C’è la tua Special Brew ghiacciata che ti aspetta, amico.”
“Fantastico.”
“Com’è andata con gli sbirri?”
“Bene. Massih è il salvatore e infatti mi ha salvato. Patrocinio gratuito. Avevo un alibi.”
“Ho del lavoro per te se lo vuoi.”
“All’officina di riparazioni elettriche di tuo zio?”
“Sì.”
“Perché non ci lavori tu?”
“Lo faccio già. Gli procuro la merce da vendere.”
“Capisco.”
“Non dovrai fare niente di simile.”
“Ok.”
“Allora ti interessa?”
“Sì.”
“Bene….ti devo una birra.”
“Tienimi in fresco una Special Brew e siamo pari.”
“Ok.”

Così ci salutiamo e mi dico che forse gli Indiani sono davvero capaci di aiutarsi a vicenda e prendersi cura l’uno dell'altro nei momenti di difficoltà. Se ti spogli di tutto ciò che sei, prendi la tua identità, la fai a pezzi e ci sputi sopra, cosa rimane di te? Forse è meglio lasciarsi reclamare da tutte quelle stupidaggini insite nel nostro stupido nome. Persino Sati è un bravo ragazzo.
Dieci secondi dopo mi spedisce una foto, due lattine di Special Brew in fresco nel congelatore. E’ un bravo ragazzo.

Il giorno dopo.

Cosa c’è di più bello della primavera a Handsworth? Niente, assolutamente niente. Passeggio per le strade e saluto la gente che conosco, compro l’ultimo album dei Sahotas, mi rilasso in Soho Road e osservo una kosovara che chiede l’elemosina.

Tutto intorno a me sento che la gente si sta chiedendo: chi sarà quest’uomo misterioso che sculetta un passo sì e uno no ? Cammino dondolando le spalle, da bullo, poi però penso che non fa un bell’effetto. Forse ho un lavoro, sono contento.

Passando davanti allo studio legale e notarile Harbans Singh decido di entrare a fare una domanda. Alla reception mi accoglie una ragazza dall’espressione imbronciata: tipica indiana acida di Birmingham.

“Ho una domanda da fare.”
“Sì.”
“Vorrei cambiare nome per atto unilaterale, quanto costa?”
“Le fisso un appuntamento con il signor Singh?”
“No, voglio solo sapere il prezzo.”
“Non lo so. E’ necessario che fissi un appuntamento e lo chieda al signor Singh.”
“Sono disoccupato.”
“Il primo appuntamento è gratuito.”
“E gli altri?”
“Dipende dalle sue richieste. Le tariffe sono calcolate in base alle mezz’ore.”
“Potrò godere di assistenza gratuita per cambiare il nome?”

Faccia acida ride.
“Non credo proprio.”
“Siamo sicuri che questo signor Singh è un vero avvocato eh? Sarà mica il titolare di un’agenzia di viaggi che si spaccia per avvocato?”
“Certo che no. Il signor Singh svolge la professione da venticinque anni…”
“Sa, è solo che a West Brom c’era questo tizio, Chatterjee, che diceva di essere un dentista quando in realtà era un semplice farmacista…”
“Vuole prendere un appuntamento o no?”

Mi ha preso per un perditempo perciò le dico:
“Da indiana cresciuta in questa nazione, in questo cosiddetto Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, non hai mai una sensazione di estraneità, come se le cose fossero sempre un po’ strane, come se facessimo parte di una comunità incompresa, ammesso che di comunità si tratti, invisibile ed emarginata ai confini della coscienza del flusso di questa società? E che forse sarebbe meglio negare la propria identità e cancellare ogni differenza, dato che la lotta per la difesa di un qualsiasi personale concetto di diversità è troppo dura e rappresenta un prezzo troppo alto da pagare, considerando che l’alternativa è preservare un anacronistico modello sociale sciovinista quale è la comunità indiana? Non senti mai di averne piene le scatole di tutto questo? Ti senti mai così? Eh?”
“No.”

Si mette a limarsi le unghie. Ho parlato troppo. Clint non dice mai che poche parole alla volta.
“Come ti chiami?”
“Perché?”
“Curiosità…ho intenzione di cambiare nome; la gente mi chiama Clint ma io sono l’uomo senza nome. È la cosa migliore. Gli indiani sono tutti infidi traditori. Anche i bianchi non scherzano però.”

Mi guarda improvvisamente interessata e mi chiede:
“Allora qual è il suo vero nome?”
“Se te lo dicessi poi ti dovrei uccidere.”
Scoppia a ridere; sta succedendo qualcosa. Esco di lì con il suo numero di telefono, si chiama Sunita.

Per il resto della giornata persino la cacca di cane sul marciapiede sembra avere un bell’aspetto. Incontro Sati nel parco dove stappiamo le lattine di Special Brew in silenzio. Dopo un po’ comincio a parlare.
“A che pensi quando mi guardi, Sati?”
“A Clint in ‘Per un pugno di dollari’.”
“Non prendermi in giro.”
“Non lo sto facendo, giuro.”
“E come mi vedi?”
“Tenebroso e spietato.”
“Come se fossi troppo spietato per avere un nome?”
“Proprio così.”
“Davvero la gente ti chiede: ‘Sati, chi è quell’indiano? Ha un’aria così spietata e glaciale."
“Lo dicono tutti.”
Meditiamo sulla calma e non oso chiedermi se viene da dentro di me o se invece è solo il silenzio di un mondo soffocato dal letargo, in cui ce ne stiamo seduti su una panchina del parco a sorseggiare Special Brew fresca.
“Qual è il tuo vero nome?”
“Satwinder.”
“Ti piace?”
“E’ il Signore che l’ha scelto dal Libro Sacro quindi non sta a me giudicare se mi piace o meno, capisci cosa intendo?”
“Si ma non abbiamo alternativa, ci affibbiano un nome prima ancora di poter decidere che persona vogliamo diventare. Questa comunità non ti offre nessuna scelta; e pensare che la causa di tutto lo stress che dobbiamo sorbirci sono proprio quei nomi. Dai un taglio al nome e darai un taglio alla catena.”

Nell’aria immobile il cinguettio degli uccelli risuona con la forza di un tamburo, per poi attutirsi quando Sati comincia a parlare.
“Clint, sei l’uomo senza nome, ma stai male lo stesso. Ti ostini a dare la colpa al nome ma non è quello a farti diventare matto. Qualunque sia la cosa che ti marcisce dentro come una fogna intasata e fa di te un incapace è solo ed esclusivamente nella tua testa . Il nome non c’entra, è solo la pula attorno al chicco di grano.”

Non ho niente da obiettare. E’ tutto molto profondo e con ogni probabilità questo inaspettato e sorprendente momento di intuizione rappresenterà anche il culmine intellettuale nella vita di questo povero idiota. Con il cellulare, scatto una foto alla mia lattina di Special Brew e la invio a Sunita, col messaggio:

“E’ tutta la vita che cerco di essere speciale e di fuggire da me stesso. Ma che succede se scappi via per ritrovarti in un posto freddo? Sono solo un fannullone disoccupato. Non ti richiamerò perché tu meriti di meglio di un indiano scansafatiche come me. Sono nel parco con Sati a bere una Special Brew. Sposati un avvocato o qualcuno del genere. Tanti saluti, Clint.”

Cinque minuti dopo mi risponde.

“Mio caro uomo senza nome,
l’unica ragione che mi ha spinto a sorriderti e darti il mio numero è che volevo liberarmi di te, brutto bastardo. Volevo rifilartene uno falso ma nella fretta di non averti più tra i piedi ti ho dato quello vero; non mi aspettavo certo un tuo messaggio. Quelli come te mi fanno vomitare, trovati un lavoro disgraziato. Non chiamarmi più e non pensarmi. Sei il classico maschio stronzo indiano, ti odio.”

Mostro il messaggio a Sati, che sospira e dice:
“Ultimamente le ragazze indiane stanno diventando aggressive.”

Beviamo un altro paio di lattine nel parco. I fiori ondeggiano nella brezza d’aprile, la sensazione delle radici acquattate nella terra a preparare i colori e i frutti dell’estate è palpabile, è come un parlottio, la promessa che è in arrivo qualcosa di buono e dolce; nell’aria le api danzano per noi. Il rumore del traffico sembra attenuarsi e per un attimo penso che in effetti la vita non ha vere e proprie epifanie, momenti capaci di alterarne il corso, ma è invece un lento e continuo susseguirsi di crescendo e decrescendo e non serve a nulla cercare di contenerla o spiegarla. Non ha senso, come non ce l’ha il mio nome. Siamo arbitrari, proprio come lo sono in definitiva i nostri nomi. Non abbiamo altro senso se non quello che riusciamo noi stessi a trovare , e un uomo senza nome, alla fine, è un uomo privo di senso.

Un cane caracolla verso Sati e gli piscia sulla gamba.

Osservo la gamba, il cane ancora gocciolante e il piscio schiumoso e penso “La mia vita”.

Presto il sole inizierà a tramontare su un altro giorno della mia condanna; la mia vita è una cosa strana e senza nome, senza maree, né alte né basse, solo un lento flusso e riflusso. Ci alziamo e bighellonando passiamo davanti a delle ragazze che ci guardano con disapprovazione. Poi ci affrettiamo verso Rookery Road, pensando a un piano per svaligiare l’officina dello zio di Sati.

traduzione di Lorenza Marini

(1)British National Party – partito britannico di estrema destra. [NdT]

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Anno 2, Numero 9
September 2005

 

 

 

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