El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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le antenne di via stalingrado

pino cacucci

In via Stalingrado, a Bologna, c'è un fatiscente edificio circondato da grate metalliche e cancellate, un alveare grigio con piccole finestre tutte uguali: da ognuna, si protende verso il cielo un'antenna parabolica. La più alta concentrazione di paraboliche della città. Sono il malinconico emblema di un legame con le radici lontane, con gli avvenimenti di casa, il bisogno di sentir parlare la propria lingua o rivedere luoghi e volti per non dimenticarli. Le paraboliche della nostalgia. Perché in quel brutto palazzone abitano uomini e donne nordafricani, quasi tutte coppie di coniugi e qualche bambino. Un tempo ospitava i dipendenti della manifattura tabacchi, poi venne abbandonato perché i vapori irrespirabili che a orari fissi investono le finestre sul retro rendevano impossibile "l'abitabilità". Le centinaia di immigrati che ci vivono adesso tengono le finestre chiuse, e tirano avanti. È quanto mi hanno raccontato Nassouh, un marocchino laureato in economia e commercio, operaio di una fabbrica a una ventina di chilometri verso le colline, e sua moglie, dottoressa anche lei, stessi ritmi di lavoro da "sole a sole", dodici ore fra straordinari, attese di corriere, rassegnato pendolarismo. Temo di essere l'unico cittadino bolognese ad aver frequentato l'interno di questo triste blocco di cemento. Fuori, transitano a milioni, e tutti in auto, perché via Stalingrado porta in fiera o in autostrada, nessuno la sceglierebbe per una passeggiata. E da fuori, si vedono le paraboliche, l'intonaco scrostato, la povertà esteriore, e in tanti pensano: «chissà che sporcizia e che casino ci sarà dentro, ma i soldi per le antenne, quelli li trovano...». Invece, dentro è inimmaginabile il livello di dignità e decoro. L'appartamentino dei miei amici è un angolo di Marocco ricostruito con pazienza e ostinazione, dai tappeti sul pavimento disastrato agli arazzi e la sura del corano alle pareti, i bicchierini di vetro variopinto, i recipienti di ottone intarsiato, i divani con i cuscini di raso e di pelle... Poi c'è l'impianto elettrico, la piccola caldaia per la doccia, i rattoppi in gesso e calce, il quotidiano impegno a mantenere pulito e funzionale ciò che era stato trovato in degradante abbandono. Come la stragrande maggioranza dei nordafricani operai che vivono qui, anche loro subiscono un doppio apartheid: oltre alla mancanza di rapporti con "italiani", non frequentano neppure i connazionali. Perché? È semplice. Sono terrorizzati all'idea di venire coinvolti in una retata, e se uno dei fermati fosse uno spacciatore o comunque un "poco di buono", come potrebbe Nassouh spiegare che lui sgobba dieci ore ogni giorno, che la sua famiglia era la più stimata del villaggio, che dal nonno sciamano venivano a farsi curare da tutta la regione, e che... Troppe cose, da spiegare a chi è convinto che «i maghrebini sono tutti spacciatori». E non mi riferisco ai poliziotti, ma alla maggioranza (sì, la maggioranza, basta con il falso ottimismo) dei cittadini di Bologna, compresi tanti anziani che anche grazie ai versamenti delle decine di migliaia di uomini e donne come quelli che vivono in via Stalingrado, continuano a ricevere la pensione. Perché se gli italiani invecchiano, sono (e saranno) i giovani lavoratori immigrati a puntellare lo squilibrio tra la popolazione "attiva" e quella "a riposo". In cambio della ricchezza che contribuiscono a creare, i tanti Nassouh devono starsene in casa la sera, per la paura di essere scambiati con la minoranza di "spacciatori". Meno male che c'è la parabolica...

Tempo fa, ho letto una dichiarazione del cardinale Ersilio Tonini: «Il razzismo è qualcosa di radicato profondamente nelle coscienze anche se, al momento, il paese è assolutamente libero dal razzismo». Ho conosciuto molti sacerdoti e vescovi, in America Latina, che mi hanno dimostrato il valore della speranza, quella sorta di "obbligo all'ottimismo" grazie al quale la barbarie guadagna meno terreno. Ma sostenere che questo paese è "assolutamente libero dal razzismo", è troppo. Negare la realtà è altro dal continuare a nutrire la speranza. Il razzismo non solo è profondamente radicato e dilagante, ma ha da tempo contagiato una vasta base della non meglio definibile "sinistra". Non me ne sto sempre chiuso in una stanza davanti al computer, ma giro per le strade a piedi, faccio la spesa nei mercati rionali, prendo l'autobus, frequento il centro e le periferie, parlo, discuto, litigo, rompo amicizie e torno a riannodarle sperando (sperando?) di far "ragionare" individui da cui mi sarei aspettato sensibilità ed elasticità mentale, dunque, a me, il cardinale Tonini, che rispetto per la sua dignitosa umiltà, non può raccontare che il paese è libero dal razzismo. Quanto fiato perso a raccontare ciò che ho visto e vissuto. Per esempio, qualche anno fa, a casa è venuto un gruppo di musicisti e danzatori tunisini, custodi della millenaria filosofia sufi: la loro musica, in Tunisia, serve anche a curare i mali dello spirito e del corpo. Ho visto le facce dei passanti: allarmate, preoccupate. Nulla distingueva quei "filosofi musicanti" dai maghrebini sbandati che gironzolano per il quartiere. Se fossero venuti a farmi visita per tre o quattro giorni di seguito, alcuni (molti) si sarebbero convinti che qui avvengono "loschi traffici"... Che significa, essere di sinistra, se si perde la capacità di distinguere, di non cedere alle campagne menzognere, di avere costantemente un approccio "positivo" con l'altro finché non dimostra di non meritarlo? Sono tanti anche quelli che non generalizzano, ma sono sicuramente troppi quelli che lo fanno.

Ingrao ha detto che l'Unità, oltre che informare, "formava". Su quali giornali si sono formati gli irresponsabili sindaci di certi "divertimentifici" romagnoli? Il morbo sottile del consenso a tutti i costi ha sempre minato le strategie e la prassi del Pci, è mancato troppo spesso il coraggio di perdere voti in cambio di guadagnare coscienze. Orwell ha scritto: «La vera libertà di stampa è dire alla gente quello che la gente non vuole sentirsi dire». Chissenefrega della vera libertà di stampa: è la legge del mercato, baby. La gente vuole sentirsi dire che c'è l'emergenza immigrati, i sindaci di destra cavalcano la paura e quelli di sinistra si attaccano alla coda del somaro e seguono la corrente, perché ad andare controcorrente ci si stanca, che diamine. E poi, la crisi dei "nostri" giornali è lì a dimostrarlo: certe cose non vogliono sentirsele dire... Ma sì, forse è un'utopia, tentare di creare coscienza e sensibilità attraverso i giornali. Sarà un'utopia, sì. Per quel che mi riguarda, l'utopia è l'unica forma di speranza che mi permette di non provare angoscia a ogni nuovo sorgere del sole.

E poi vanno a Parigi, a Londra, a Amsterdam (per non parlare di quel sommo concentrato di ipocrisie che è New York) e tornano estasiati dal "clima cosmopolita e multietnico"... Parlo sempre di tanti miei conoscenti "di sinistra". Perché girando per Bologna non riescono a cogliere le stesse sensazioni estetiche di quando passeggiano per Belleville? «Ma che discorsi, là l'integrazione è avviata da più tempo», hanno il coraggio di rispondere. E qui, quando intendiamo cominciare? Ah già, dimenticavo: è tutta colpa della mafia, che usa gli immigrati come manovalanza, comunque, sono tutti spacciatori, anche se la responsabilità è della mafia. Il razzista di sinistra ha sempre un valido alibi di partenza.

Pino Cacucci

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Anno 0, Numero 2
December 2003

 

 

 

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