Nota biografica | Versione lettura |
Era quasi l’ora di chiusura e il farmacista Waldemar leggeva una
rivista di viaggi. Non c’erano più clienti. Solo una tossica che si
rifaceva il trucco allo specchio del reparto cosmetici. Passava di lì
tutte le sere, il farmacista non ci faceva neanche più caso.
Era un
fine inverno particolarmente propizio ai bacilli e ai consigli su come
liberarsene. Anche quel giorno il farmacista aveva fatto un buon
incasso. Una folata di vento fece cigolare la porta a vetri girevole. La
tossica se n’era andata. Nella porta girevole entrò un vecchio alto e
impacciato. Il signor Licata. Non aveva ancora imparato ad usare la
porta. Ci rimaneva ogni volta bloccato dentro un momento, smarrito e
sospettoso, attendendo chissà quale pericolo. La spingeva a piccoli
passi e quando ne usciva aveva l’aria di aver scalato una
montagna.
— Buonasera — disse il farmacista — come è andato il
lavoro?
Il signor Licata faceva l’orologiaio.
— Se qualche anno
fa mi avessero detto che avrei venduto orologi russi — disse sospirando
il signor Licata. Era pallido, aggraziato, con una corta barba grigia.
Oppresso da un cappotto color grigio preistorico e una sciarpa a
quadri.
— E a me, se avessero detto che avrei venduto siringhe ai
giovani e vitamine ai vecchi?
Il signor Licata non disse nulla. Si
guardò intorno e poi fissò il farmacista come se aspettasse
qualcosa.
— Vuol provare la pressione? — disse Waldemar.
— No
— disse il vecchio orologiaio. — Stanotte è luna piena.
— Non era
ieri notte?
— Stanotte — disse l’orologiaio.
— Beh non è tanto
freddo — disse Waldemar — si potrà passeggiare tranquillamente.
—
Non avrebbe qualcosa... — disse l’orologiaio, a voce bassa — qualcosa
un po’ più forte dell’altra volta? Magari qualcosa che mi faccia
dormire.
Il farmacista scosse la testa e si tolse il camice.
— Il
suo problema signor Licata, non è un problema di sedativi. Io credo che
lei debba accettarlo e basta. Il Tavor può toglierle un po’ l’ansia.
Se anche le dessi qualcosa di più forte lei sarebbe solo un po’
stordito, ma non risolverebbe niente. Magari le verrebbe assuefazione e
avrebbe bisogno di sedativi anche nei giorni... negli altri
giorni...
— Che ore sono? — disse l’orologiaio.
— Le otto —
disse Waldemar.
— Le faccio perdere tempo se mi misura la
pressione?
— Niente affatto. Si sieda — disse Waldemar. Provava una
certa simpatia per quel vecchio.
— Vede — disse l’orologiaio — il
fatto è che conosco ormai tutta questa città, strada per strada. Il
centro è buio, di notte, e ci sono solo vetrine, manichini, scarpe. E
non mi azzardo ad andare in periferia. Mi corrono dietro. Bande di
ragazzacci. Curiosi. Non hanno paura di niente. Allora da un po’ di
tempo vado sui colli. Ma ho paura. Quelle ville, con i cani dentro. E
quei cancelli pesanti. L’altra luna mi hanno sparato addosso.
—
Avrà fatto i soliti rumori — disse il farmacista stringendo la banda
elastica. Il braccio del vecchio era robusto e scuro.
— Oh no, non
faccio più quelle cose. Cammino e basta. Cammino, finché le gambe mi
reggono. Poi mi nascondo in qualche prato e aspetto l’alba. Mi sveglio
tutto bagnato, col male alle ossa.
— La pressione è appena un po’
alta, ma è logico — disse il farmacista — lei è agitato, come sempre
in queste sere...
— E lei cosa farà stasera? — chiese
l’orologiaio.
— Andrò a un concerto. Un pianista rumeno credo.
Schubert, Liszt, Chopin. Un buon programma.
— Con sua moglie?
—
Con mia moglie.
— Avete fatto la pace?
— Per forza — rise il
farmacista — questa farmacia è mezza sua, se l’immagina, mettersi in
mano agli avvocati. Sono un branco di...
— E suo figlio?
— Mio
figlio è a sciare. Ha appena dato un esame all’Università. Passa per il
rotto della cuffia, ma passa sempre. Studiacchia. Gli piace la gente che
c’è in quella scuola, dice che è bella gente. In effetti, non l’hanno
mai occupata. Io sono abbastanza tranquillo a sapere che studia là. Ci
sono dei professori ottimi. C’è quello della Banca d’Italia...
— I
pòllini — disse il vecchio orologiaio.
— I pòllini?
— Sì, tra
poco cominceranno i pòllini...
— Le darò un antistaminico.
— La
ringrazio. Lei è molto gentile...
— La conosco da anni,
ormai...
— Lei sa che io non ho mai fatto male a nessuno...
—
Adesso non ricominci. Ecco il Tavor. Ne prenda uno verso le undici,
un’ora prima, e uno alla mattina quando si sentirà meglio. Uno solo,
però...
— Lo so. Quando ne ho presi tre, mi sono addormentato sotto
un cassonetto della spazzatura. Per fortuna ero coperto col cappotto.
Hanno pensato che fossi un barbone.
Disse questo senza sorridere. Si
alzò, guardando il mistero della porta girevole.
— Penso che andrò
sui colli anche stanotte...
— Stia attento signor Licata... Non si
faccia nuovamente sparare addosso...
— Sparano a chiunque, sa?...
cioè non mi sparano perché sono... sparano perché mi prendono per un
ladro, per uno che passa nella loro proprietà... non si accorgerebbero
di nulla se mi uccidessero... sa, quando uno di noi muore, torna
subito... normale.
— Lei è del tutto normale... quasi
normale...
— Sì? — sorrise il signor Licata — allora stasera verrò
al concerto con lei.
Il farmacista spense la luce, ebbe un attimo di
esitazione, la riaccese subito senza sapere perché.
— Le dirò la
verità signor Licata. Non mi piacciono più i concerti. Detesto stare con
mia moglie. I miei amici parlano solo di macchine e di barche. Ma come
dice lei, io sono una persona normale... lei conosce l’Irlanda?
—
Io non ho mai viaggiato — disse l’orologiaio.
— Beh, ci andrò in
vacanza quest’estate. Questa è l’unica cosa che mi piace.
Viaggiare.
— E a me camminare di notte. E riparare orologi
vecchi.
Il farmacista sorrise. Spinse delicatamente l’orologiaio
fuori dalla porta girevole, sentì la schiena ossuta sotto il cappotto.
La piazza era già buia.
— Allora... stia tranquillo... — disse —
passerà, come sempre.
— Certo — disse l’orologiaio — non devo
aver paura. E poi alla nostra età ormai, di cosa si deve aver
paura?
— Neanche più dei russi — disse il
farmacista.
L’orologiaio si soffiò il naso e si allontanò con passo
sghembo. Il farmacista chiuse la serranda. Quando si voltò notò subito
in cielo la luna, gialla e immensa. L’orologiaio era già in fondo alla
piazza. Gli parve che si voltasse per un attimo e lo salutasse, con un
gesto di addio, un gesto aggraziato.