El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione
Nota biografica | Versione lettura |
satorotas
jarmila ockayová
"Le sue sopracciglia e le sue ciglia tremolavano animatamente sopra gli occhi ciechi, come se le palpebre nel suo viso, come vele sotto la fronte, si fossero mutate in ali: le ali dei suoi occhi, che lui spedisce come piccioni viaggiatori, e fa girare intorno a tutto il mondo, per farsi raccontare tutto al loro ritorno, affinché non gli sfugga in un chiaro occultamento niente di nuovo e vecchio ancora da scoprire."
(da Borges non esiste di Gerhard Kopf)
Mi chiamo Satorotas e sono un colombo viaggiatore.
Un colombo viaggiatore particolare: trasporto messaggi che non hanno destinatari.
Non crediate però che i messaggi senza destinatari siano meno importanti degli altri, o che siano scritti per nessuno. Al contrario: sono di un’importanza vitale, come potrebbe esserlo una lettera affidata alla classica bottiglia gettata in mare da un naufrago approdato su un’isola deserta. Il naufrago scrive e spera, spera che le onde e le correnti trasportino la sua missiva fino al continente, dove prima o poi qualcuno vedrà la bottiglia rotolare su una spiaggia di sabbia o sassi e la raccoglierà e la stapperà e tirerà fuori quel rotolino di carta, la più grande ricchezza del naufrago, e saprà decifrare le coordinate dell’isola, faticosamente tracciate con un inchiostro artigianale distillato da verdi grasse foglie di una vegetazione ostile e la punta di una penna perduta da un magnifico uccello rapace. Qualcuno che saprà decifrare il messaggio e che, soprattutto, lo prenderà in seria considerazione e deciderà di aprire le vele della sua barca orientando la prua verso
l’isola.
Io faccio le veci di quella bottiglia sigillata, e affronto anche le sue stesse incognite; l’unica vera differenza consiste nella direzione degli abissi in cui rischio di sprofondare: i miei puntano verso l’alto e quindi non hanno fondo e se un giorno vi precipiterò, la mia sarà una caduta senza fine. Tutti noi colombi viaggiatori lo sappiamo: il cielo è molto più insidioso del mare o di un oceano.
In compenso, i venti ci sono complici. Ci sorreggono, ci sospingono, o semplicemente ci stanno accanto per farci compagnia durante i nostri lunghi voli. E, beninteso, anche per avere la nostra, di compagnia: ai venti fare un po’ di conversazione piace moltissimo, in questo somigliano a certi umani che in treno si mettono a chiacchierare persino con gli sconosciuti; e certi venti e certi colombi viaggiatori si incontrano più e più volte, come pendolari che prendono ogni giorno lo stesso treno, e allora di volta in volta la confidenza cresce, si diventa proprio amici, si discute insieme dei suoni e dei profumi che loro raccolgono sulla Terra e che vorrebbero portarsi a Casa, come dei simpatici souvenir di un viaggio turistico. Perché loro, i venti, credono questo: credono di correre sempre verso casa, e non si rendono conto che in quella loro corsa si stanno consumando, e non c’è al mondo un solo colombo viaggiatore che abbia mai trovato il coraggio per dire a un vento che è un illuso, che per lui non c’è né ci sarà mai una casa e che l’unica vita che gli resta è fatta di ciò che rimane del suo tragitto. Se un vento si ferma è finito, ecco la semplice verità. E se voi ne aveste visto morire uno, sapreste anche quanto questa verità sia crudele.
Io, una volta, ho visto.
Era un vento ancora pieno di vita, pieno di suoni e di profumi che spargeva attorno a sé con ventosa generosità. Ed era anche un vento giocherellone – e questo gli è stato fatale – era uno che s’infilava sempre nelle nuvole, e vi si infilava come un bambino nel suo costume di carnevale, con l’allegra credulità di una metamorfosi immaginosa.
A ogni vento piace farsi notare, e voi sapete che i venti diventano visibili grazie alle cose che riescono a muovere: i vostri capelli spettinati, le onde increspate di un lago o l’erba piegata di un prato. E ci sono venti un po’ vanitosi ma miti, che si accontentano di questo; e ci sono venti di indole impetuosa, che vogliono lasciare tracce di sé e allora se ne vanno in giro a rosicchiare le rocce o a scoperchiare i tetti delle vostre case. E ci sono, infine, venti come quello di cui vi sto parlando, venti ai quali non importa nulla della visibilità, venti che vogliono altro: vogliono entrare nelle cose, proprio dentro le cose, e fondersi con esse.
E’ per questo che il vento di cui vi sto parlando sceglieva le nuvole. Aveva scoperto molto in fretta che sulla Terra le cose sono troppo rigide: si lasciano toccare, avvolgere, aggirare, spostare, o anche attraversare, ma restano rigide. Resistono ai venti. Le nuvole no; le nuvole sono duttili, flessibili, accoglienti.
Ed è così che è morto: un giorno si era infilato dentro un nuvolone nero, un nuvolone temporalesco, e mentre s'industriava a inventargli una nuova forma, un fulmine che aveva scelto quel nuvolone per sua dimora gli ha trapassato il cuore.
L’ho visto frantumarsi in un attimo, in mille piccoli sibili che schizzavano da tutte le parti, spegnendosi più velocemente di un sospiro.
Per un colombo viaggiatore destinato a trasportare messaggi senza destinatari assistere alla morte violenta di un vento è la peggiore delle esperienze possibili, e ci vuole tutta la forza di volontà per superarla. Il vento è la nostra più grande risorsa e già sarebbe dura vederlo spegnersi come normalmente si spengono i venti, quando hanno esaurito tutta la loro forza vitale; vederne uno scomparire così, disintegrato da un fulmine, significa sentirsi costretti, di colpo, a prendere atto dell’inconsistenza dell’aria, significa dover imparare a convivere con il senso di precarietà assoluta, con la paura incessante che il cielo possa mutare in qualsiasi momento, trasformarsi da rotta sicura qual era in un nulla immobile e vertiginoso, dove si resta abbandonati a se stessi come una bottiglia in mezzo ad un oceano senza più correnti, alla mercé di un’immensità incommensurabile, senza più direzioni e senza più mete. E qui il rischio, per un colombo viaggiatore, è quello di perdersi, di smarrire la percezione dei punti cardinali e di volare sempre verso l’alto. Sempre più su, sempre più lontano dalla terra, fino a che non viene oltrepassato il punto del non ritorno, laddove cessa la forza di gravità e all’improvviso ci si rende conto che la distanza tra noi e la Terra è diventata troppo grande e che non basterebbero le energie di tutta una vita per tornare indietro; e allora un colombo viaggiatore della mia specie si lascia andare, si lascia cadere nel vuoto, in quel nulla immobile e vertiginoso, e cadrà per sempre, come una minuscola meteorite di piume e ossa.
Per me, poi, il rischio raddoppia. Per me i venti sono doppiamente importanti; semplicemente non ce la farei a muovermi, senza di loro. Perché io ho una sola ala.
Ciascuno di noi ha la sua leggenda personale sul come e sul perché è nato, e il più delle volte sono proprio leggende: la memoria di chi ci ha visti nascere trasfigurata dalla voglia di dare un senso preciso al nostro passaggio sulla Terra. La mia leggenda personale narra che sono nato con una sola ala perché sono stato modellato da un pezzetto di creta e dalle mani di una ragazzina così innamorata del suo maestro dell’arte ceramica che voleva coinvolgerlo nel suo lavoro, voleva che fosse lui a fabbricare la mia seconda ala, convinta che in questo modo io sarei nato con due anime e il suo amore sarebbe stato ricambiato. Il maestro dell’arte ceramica non aveva risposto all’appello della sua allieva ma, ciò nonostante, l’amore della ragazzina era così intenso e così disperato che mi aveva infuso la vita ed ero volato fuori dalla finestra del laboratorio dell’arte ceramica, ero volato verso il cielo l’aria i venti e verso il mio destino – scaturito proprio da quel messaggio lanciato e non raccolto – di essere per sempre trasportatore di messaggi senza destinatari.
Io ovviamente non ricordo nulla di tutto questo. Forse è vero forse no; in ogni caso, mi piace credere che il mio handicap abbia un’origine così nobile: mi aiuta a sopportare la fatica dei miei viaggi durante i quali – è questo che volevo dirvi – per restare in equilibrio e per non perdere la rotta, con questa unica ala e il resto del corpo che fa da àncora sempre pronta a calarsi nei fondali, io ho assolutamente bisogno dei venti. Della loro energia, ma soprattutto della loro presenza.
Il vento è un compagno di viaggio straordinario, oltreché indispensabile. Voi umani l’avete già intuito e da secoli state cercando di cogliere la sua voce, e dite che il vento fischia o sussurra o urla o stormisce, e fa davvero tenerezza questo vostro sforzo di trovare verbi appropriati: non capite che ciò che state definendo sono soltanto le voci delle cose che il vento incontra strada facendo: è la canna del vostro camino a fischiare, sono le chiome degli alberi a stormire. La voce del vento, oh, la voce del vento è tutt’altra cosa! Non troverete mai le parole per definirla; tuttavia, potreste imparare tutti ad ascoltarla e quindi, tra di voi, a raccontarvi racconti che il vento racconta, e allora non sentireste più alcun bisogno di classificarla, quella voce, e ciascuno di voi ci troverebbe la sua leggenda personale e la sua speciale rotta da seguire.
Tornando a me, la mia leggenda personale è racchiusa anche nel mio nome.
SATOROTAS.
Forse me lo ha dato la ragazzina innamorata, che forse non era una ragazzina ma una vecchia centenaria dalle mani e dai sogni di una ragazzina, o forse lo ha inventato il maestro dell’arte ceramica, vedendomi volare fuori dalla finestra e fondendo nello stupore le due parole latine che compongono il mio nome. In ogni caso, quel nome si è intrecciato a me e al mio destino ed è diventato ciò che io sono.
Guardatelo: ha dentro la mia Rotta e dice che qualcuno Sa, e che io So.
Qualcuno che sa ciò che io SO: ma chi? E cosa?
Per molto tempo era una specie di ossessione, per me.
Qualcuno SA qualcosa sulla mia ROTTA.
Sul mio destino, sul mio cammino, sulla direzione del mio viaggio.
Qualcuno, chi?
L’ho scoperto per caso, rasentando in uno dei miei voli faticosi quel confine oltre il quale viene a mancare la forza di gravità, oltre il quale si trova il punto del non ritorno. E’ una specie di Terra di Nessuno, né del cielo né della terra, ed è frequentata dalle anime. Non dagli spiriti dei morti, ma proprio dalle anime dei vivi che durante i loro viaggi astrali si danno spesso appuntamento in quel lembo di spazio che voi umani chiamate in modi diversi e sempre poco appropriati: qualcuno dice mondo onirico o inconscio, qualcun altro percezione o intuito, e qualcun altro ancora si limita a dire “invisibile”, oppure occulto.
Questa ultima versione mi pare la più onesta, anche se non c’è nulla di invisibile, se si hanno gli occhi per guardare; ma voi umani continuate a dare troppo credito alle sole sensazioni visive originate dai centri nervosi delle vostre fibre oculari, e vi lasciate sfuggire il resto. Il meglio.
In quel lembo di spazio, dunque, in quella terra fatta di aria mistero e magia, io ho visto l’anima della ragazzina innamorata e ho visto l’anima del suo maestro dell’arte ceramica. Le ho viste insieme. Stavano vicine e si toccavano appena, come due amanti stanchi seduti sulla panca di una stazione sconosciuta, dove sono scesi da un treno e aspettano la prossima coincidenza.
Come due amanti stanchi, sì, ma si capiva subito che i loro corpi laggiù non si sono amati mai: lo si capiva dalla timidezza con cui si appoggiavano l’una all’altra, non dico senza confidenza ma certamente senza la sicurezza di due corpi astrali che hanno sperimentato la fusione dei loro corpi terrestri.
Eppure, nel punto in cui si toccavano, c’era una grande luce. Difficile da descrivere, credetemi, se non per contrari: immaginate due cerchi che si sovrappongono parzialmente e che nel tratto della sovrapposizione diventano più scuri, e immaginate l’opposto di quella opacità di contatto. La luce, appunto. Una specie di eclissi alla rovescia, dove il cono d’ombra produce e aumenta la luminosità. Era palese che quei due avevano a lungo ascoltato la voce dello stesso vento, e ora stavano raccontandosi i suoi racconti. E stavano anche ridendo di se stessi, di se stessi laggiù, con dolcezza e malinconia, perché laggiù sono così distanti l’uno dall’altra che riescono a fraintendersi anche a distanza: lei pensa che lui la rifiuti, lui teme che lei lo stia scambiando per un altro.
Vedendoli così vicini, non ho resistito e mi sono avvicinato anch’io e mi sono fermato davanti a loro, proprio sulla linea inondata di luce che irradiava da quel punto di contatto.
Mi hanno guardato, insieme, e insieme, all’unisono, hanno esclamato: Satorotas!
La gioia di essere stato riconosciuto è inenarrabile; posso solo dirvi che in quel momento ho sentito, sul mio fianco destro, quello dell’handicap, qualcosa come un pizzicore, o un formicolio, qualcosa a metà strada tra dolore e piacere, e ho avvertito, ho avvertito chiaramente che stava spuntandomi una seconda ala.
E anche se non la vedo ancora, anche se il mio fianco destro continua ad essere piatto e monco, vi assicuro che da quando ho incontrato le anime di quei due, i miei voli sono diventati meno faticosi: io quell’ala invisibile continuo a sentirla. E so che prima o poi riuscirò anche a spiegarla, durante i miei voli.
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