Nota biografica | Versione lettura |
"Chi perde una cosa ha buone possibilità di ritrovarne un’altra
smarrita da lungo tempo. Si deve perdere qualcosa in modo che, mentre la
si cerca, si possa trovarne un’altra perduta e dimenticata da chissà
quanto."
Nureddin Farah
In quei mesi il mondo, come io l’avevo conosciuto fino ad allora, non era più lo stesso. Era venuto il fabbro e aveva costruito un cancello di ferro per rinforzare la porta di casa. Muse Said Omar, il marito di mia zia, non ne voleva sapere di comprarsi un’arma. E il nostro guardiano Yusuf, ormai lo stesso da dieci anni, non aveva più il coraggio di un tempo. Da giovane amava spaventare noi bambini con terribili racconti di guerra. Era originario della regione dell’Ogaden e raccontava sempre le efferatezze dei soldati durante il conflitto tra Somalia ed Etiopia. Era stato un guerriero glorioso e tenace e conservava ancora un vecchio coltellaccio che ci mostrava per metterci paura. Ma ormai il tempo e le febbri malariche, che lo inchiodavano alla brandina per giorni, avevano scalfito la sua fibra resistente. La sua presenza era ormai da tempo come quella di una vecchia tata quando i bambini sono cresciuti.
L’ultima volta i ladri vennero, rubarono gli abiti e la macchina e decidemmo che Yusuf non avrebbe più dormito sotto le stelle come consuetudine, ma dentro casa, con gli altri. Era troppo pericoloso, soprattutto perché ormai giravano bande armate fino ai denti contro le quali poco avrebbe potuto fare un vecchio con il suo coltellaccio.
A casa, la maggior parte di noi era immobilizzata, come in uno stato di torpore. Finché un giorno Shukri saltò fuori con l’idea di partire.
“E dove vorresti andare?” le chiese suo padre.
“In Italia, dove sono andate Leyla e le altre!”
“Tu sei pazza!” gridai, trattenendomi a stento “Vuoi andare a fare la domestica per una famiglia di gaal? Ma cosa ti immagini di trovare?”
Ero stata troppo impulsiva: Shukri mi diede un ceffone e se ne andò dicendo: “Eccola la nostra regina! Sai cosa ha detto Siad Barre? Dopo di me nessuno! Secondo te devo restare qui a farmi ammazzare? Cosa me ne importa di fare la domestica, tanto i piatti e il pavimento li lavo anche qui!”
Così Shukri si unì alla fila di persone che ormai ogni giorno sostava davanti al Consolato italiano e io me ne restai con la mano sulla guancia e la bocca semi-aperta. All’epoca ero troppo giovane per capire la natura degli eventi e credevo ancora di essere immune a tutto, anche ai proiettili.
Certo, io pensavo al resto, al sole, alle passeggiate al mare, a quel vento che solo lì sentivi, con la sabbia che ti frustava la faccia. Pensavo al tè profumato di cannella e cardamomo e ai lunghi discorsi con la zia che aveva le gambe gonfie e non ne voleva sapere di mettersi a dieta:
“Non sono una morta di fame, guarda i miei figli!” diceva.
Ma i massaggi li voleva ancora, come quand’ero piccola e avevo le mani minute, mani morbide di bambina che non ha mai lavorato, come ripetevano le sue amiche.
Così le spalmavo l’olio di sesamo sui polpacci e premevo forte con le mie piccole dita e forse le davo un po’ di sollievo.
Mi faceva persino rabbia a volte, quando si sdraiava sfacciatamente sulla stuoia e gridava ordini a tutte: “Fai da mangiare questo! Ma chi ti ha insegnato a fare la spesa?! Cosa credi … proprio oggi che abbiamo ospiti … Non hai imparato niente da tua madre?! Vai a comprare più carne!”
Si comportava così la zia, ma sapevo che a modo suo mi amava davvero, come se fossi una figlia sua.
La sentivo quando origliavo fuori dal salotto, salotto di tappeti persiani e divani italiani, sala esclusiva per gli ospiti, sentivo come parlava. Era orgogliosa e parlava di me quasi meglio che di Fatuma, Kadija, Libeen, Xaliima, Shukri, Maxamed e Xusseen che erano tutti i figli suoi.
Diceva: “Questa figlia è un prodigio, studia il pomeriggio intero! Non vorrei che facesse la fine di sua madre, povera sorella mia! Se non avesse studiato tutti quegli anni forse sarebbe ancora con noi. Ma è stato volere di Allah.”
Ascoltavo le sue parole e poi tornavo a sciacquare i piatti e il dolore era forte nonostante tutto.
Pensavo a mia madre e alle poche cose di lei che ricordavo. Mi preparava ogni sera una tazza di latte caldo e mi abbracciava forte per addormentarmi. Poi si allontanava in punta di piedi e lasciava lo zampirone acceso. Ma io ero tranquilla, perché la sentivo parlare piano con la zia nella veranda.
Abbiamo sempre abitato insieme, noi e la famiglia numerosa della zia, forse perché io ero figlia unica, forse perché mio padre è stato lontano per molti anni.
Era bello essere tanti bambini tutti insieme. La sera lo zio Muse ci caricava a bordo della sua 124 verde e ci portava tutti quanti a fare un giro. A volte andavamo a vedere un film indiano sdolcinato e lui, che non ne voleva sapere di annoiarsi con simili pellicole, ci ritornava a prendere dopo due ore all’uscita del cinema. Più spesso andavamo semplicemente al Lido e ce ne stavamo sulla veranda di fronte al mare a sorseggiare insieme la nostra Fanta. L’unico che mi faceva un po’ rabbia era Libeen, per quel vizio perverso che aveva di conservarsi la bottiglietta piena fino alla fine, così da far invidia a tutti noi che l’avevamo finita. Poi c’erano i giorni speciali, i giorni delle feste, quando ci veniva regalato qualcosa, e allora era finalmente una macchinetta a testa che avevamo pregustato da tempo o una cintura di vernice da indossare il giorno di Aid, alla fine del Ramadan. Poi c’erano le cose di tutti i giorni, le cugine maggiori che lavavano noi piccoli spruzzandoci con una pompa, il timore reverenziale per il maestro di Corano, il corso di italiano dalla suora del Sacro Cuore e l’incenso acceso al tramonto per scacciare i jinni invidiosi.
Ce la passavamo bene e non ci mancava nulla. E non pensai mai all’assenza di mio padre fino a quando non lo vidi per la prima volta. Non fu veramente la prima volta, dato che dai racconti di mia zia i miei genitori vissero felicemente insieme nei miei primi due anni di vita. Ma fu sicuramente la prima volta che la mia memoria ha registrato.
Mio padre: una fila di denti come l’avorio e una voglia sulla fronte proprio come me. Ricordo che fu quello il vero motivo per cui mi fu subito simpatico: odiavo quella macchia! Mi guardavo allo specchio e strofinavo forte con la spugna per farla scomparire.
Così quando ho visto quell’uomo con quella voglia uguale alla mia, ho pensato che finalmente avrei dormito tranquilla.
I miei genitori discutevano molto, questo lo ricordo. E la mamma era una donna emancipata: parlava con gli uomini e fumava in pubblico. Sua sorella si imbestialiva e le nascondeva le sigarette.
Una volta la zia, quand’ero ormai adulta, si arrabbiò con me e disse che sarei diventata una fumatrice, come mia madre. Le deve essere parso un insulto terribile.
Dopo la partenza di Shukri, in casa l’atmosfera cambiò molto. Sembravamo tutti inquieti, si respirava un’aria di attesa, di sospensione. La zia era intrattabile e io ero animata da un’euforia strana, innaturale. Me ne andavo incoscientemente in giro per la città ignorando il coprifuoco e gli infiniti pericoli esistenti. Sognavo un esercito di liberatori che marciava verso la capitale, sognavo la sede del potere distrutta e i beni accumulati nelle cantine distribuiti ai mendicanti. Immaginavo la radio a tutto volume annunciare la fine del regime e i nomi dei miei genitori annoverati tra gli eroi dell’ultimo decennio.
Poi tutto accadde così rapidamente che non me ne resi nemmeno conto.
Mio cugino Maxamed si era procurato da tempo una pistola, per difendere la casa, diceva.
La zia raccoglieva sempre più gente nelle sue stanze, gente che abitava in luoghi isolati e aveva troppa paura di rimanere sola.
L’esercito di liberazione entrò in città e il Presidente sfoderò tutto il suo armamentario per difendere se stesso e il potere a cui era rimasto avvinghiato per anni.
“Dopo di me nessuno!” così aveva detto.
E così sembrava dover essere.
Bande di rapinatori scorazzavano per la città saccheggiando case e scatenando la loro violenza su esseri inermi.
Guardavo i buchi sulle pareti e mentre scaldavamo l’acqua sul fuoco per cucinare un po’ di riso, unica risorsa rimasta, pensavo ai miei amici e soprattutto a Deeqa, incinta di nove mesi, ormai il bambino doveva davvero nascere.
Le avevo promesso che l’avrei aiutata a partorire proprio come avevo fatto con decine di donne negli ultimi mesi nel sanatorio della Croce Rossa. Deeqa aveva molta paura, perché sua sorella era morta di parto. Se fosse andata in un buon ospedale le avrebbero forse fatto un cesareo, ma nessuno ci aveva pensato. Così Deeqa si fidava di me, era sicura che non l’avrei lasciata morire.
Presi una bacinella per lavarmi la faccia. Avevo intenzione di trovare qualcuno che mi accompagnasse dalla mia amica. Vicino al letto, in un angolo, c’era un piccolo specchio con una cornice di legno rosso. Guardai se avevo il viso pulito e feci un gesto che non facevo più da molto tempo.
No, la macchia non si cancellava. La mamma mi prendeva in giro, puntava il dito proprio in mezzo alla mia fronte e faceva finta che fosse un interruttore. Diceva che quello era il rubinetto magico mio e di mio padre da cui sgorgavano un’infinità di idee. Chissà se ha pensato così fino all’ultimo momento.
Quando mio padre è scomparso, mia madre ha cominciato a piangere sempre e c’era un sacco di gente a casa e continuavano ad arrivare uomini con gli occhiali che controllavano tutto. Ma lei ormai aveva perso interesse per le cose.
Nessuno mi ha mai voluto raccontare come sia morta la mamma, ora che sono grande penso che l’abbia uccisa il dolore per quei tredici uomini fucilati sulla spiaggia senza processo, quei tredici uomini di cui uno aveva una voglia proprio in mezzo alla fronte.
Stavo pensando a questo, quando arrivò di corsa Yasiin pregandomi di andare con lui da Deeqa che aveva ormai le contrazioni da diverse ore, senza nessuno che fosse in grado di assisterla.
Penso confusamente a quel momento, la memoria mi restituisce solo il ricordo di mia zia che salutai baciandole le mani, mentre lei urlava maledicendo il giorno in cui mi aveva permesso di andare all’ospedale a guardare (come lei diceva) quelle disgraziate che avevano paura di mettere al mondo dei figli.
Indossai un abito nuovo e infilai in una borsa una foto di mia madre, il disinfettante, qualche garza e un paio di orecchini d’oro che mi aveva regalato la zia e potevano essermi utili per barattarli con qualcosa nel caso ce ne fosse stato bisogno.
Io e Yasiin non arrivammo mai da Deeqa. Ci fermarono certi ragazzini insolenti armati fino ai denti che cominciarono a chiederci a quale clan appartenevamo, strattonando lui e molestando me.
Poi ci portarono dai loro capi e la fortuna mi fu favorevole.
Avevano occupato l’ufficio di una ditta italiana e avevano trovato degli apparecchi radio che non sapevano far funzionare.
Dissi loro che li avrei aiutati a comunicare con l’estero, traducendo i loro comunicati, ma che dovevano togliermi di torno quei boscagliosi molesti e garantire l’incolumità di mia zia.
Giravano voci di pulizie etniche e la mia famiglia rischiava grosso in quel frangente.
La situazione era così drammatica che, all’improvviso, non pensavo più agli ideali che mi avevano accompagnato per anni, volevo solo andarmene, pensavo a Shukri, a quant’era stata saggia, pensavo all’Europa dove non c’era guerra.
Cercavo la pace e lì sicuramente l’avrei trovata.
Scortata a bordo di una Land Cruiser arrivai a casa, ma della zia non c’era traccia. Mobili sfasciati, vetri infranti, speravo solo che durante quello sfacelo lei non fosse stata presente.
Feci l’unica cosa che poteva fare una ragazza della mia età in quella situazione, cercai di raggiungere un gruppo di stranieri protetti dai loro governi che cercavano di abbandonare il paese e partii. Pensavo a Deeqa, alla zia e a tutti gli altri, chissà se ce l’avevano fatta come me.
Il viaggio fu interminabile e ricordo chiaramente solo una cosa: avevo fretta di arrivare, arrivare in un luogo in cui non si udivano sibilare proiettili, dove le strade non erano piene di cadaveri.
Così quando arrivai a Roma, ospite di un cugino della mamma, tutto mi parve meraviglioso e aver salva la vita quasi incredibile.
Ci si incontrava alla stazione Termini per sapere le ultime novità, la guerra era ancora vicina, ma la tensione cominciava a diluirsi.
Almeno così mi parve all’inizio, perché ero sicura che ce l’avrebbero fatta tutti.
Poi seppi di una nave che era partita da Kisimayo per Mombasa ed era carica di passeggeri, così carica che non ce l’aveva fatta a portarli tutti.
La zia si vantava sempre di saper nuotare, mi diceva di quel fiume nel paese dove era cresciuta. Si vantava sì, ma se ci fossi stata le avrei detto che si preoccupasse di se stessa, che ci avrei pensato io ai bambini, invece lei … con quelle sue gambe gonfie: era ovvio che non ce l’avrebbe fatta! Quelle onde maledette … il fiume non è come l’oceano!
Fu un duro colpo per me, a quel punto mi venne anche a mancare la speranza che le cose si ristabilissero. Non avevo voglia di fare la domestica eppure si prospettava come unica possibilità.
Shukri aveva avuto ragione.
Pensai di iscrivermi all’Università per coltivare i miei sogni.
Studiavo nel tempo in cui non mi occupavo della piccola Beatrice, un piccolo angelo che mi era stato affidato. Ero felice e non capivo come i due genitori riuscissero a starle lontano per così tante ore, preoccupati ed ansiosi, sempre oberati di impegni e di lavoro. Io le stavo davanti e lei balbettava parole dolci.
Mi frantumavo e la mia vita non aveva alcuna importanza di fronte a lei.
Premeva le sue piccole dita sulla voglia che avevo in mezzo alla fronte, per accendermi, diceva.
A volte com’è importante non dover pensare a se stessi.
E quelle piccole cose, le mani nell’acqua, le verdure da tagliare, lo straccio e il profumo di Lisoform nell’aria sembrano meravigliose.
Tanto che penso: Vorrei avere un piccolo giardino con buganvillea, ibiscus e papaie profumate da coltivare, andare al mercato con un cesto di paglia e accogliere tanti bambini nella mia casa.
Mi basterebbe.
Insegnare loro quel poco che so e imparare da loro a vivere di nuovo con enorme gratitudine.
Con stupore e con gratitudine.
Questo pensiero dolce e melanconico è la mia culla.
Culla di pace custodita nel cuore.
Interamente.